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Zandel: l’odore di casa senza quel confine (La Voce in più Cultura 24 giu)

Il ponte del primo maggio l’ho trascorso sul Quarnero. Mi sono sorbito otto ore di autostrada per arrivare a Moschiena con famiglia e amici romani, che volevano vedere quelle parti attraverso i miei occhi, per non andare a caso, conoscere gli angoli segreti, fuori dal giro scontatamente turistico, le trattorie locali migliori. Ci tornavo dopo circa sette mesi. Nel frattempo
una novità: il confi ne con la Slovenia abbattuto. A Kozina, luogo tradizionale del mio passaggio, erano rimasti solo i caselli delle guardie. Vuoti. Ma quel posto di frontiera non è come un altro, così legato com’è a quando lo oltrepassavo da bambino: lì c’era il confine con la Jugoslavia. Per me, per anni, ha rappresentato il confine tra due mondi, quello occidentale, libero, democratico, rappresentato dall’Italia, e quello oppressivo, dittatoriale, rappresentato dalla Jugoslavia comunista.
Al di là di esso, nel mio immaginario alimentato dai ricordi dei miei genitori, cominciava la Cortina di Ferro.
Il primo viaggio lo feci con mia madre. Fuggita da Fiume con mio padre nel luglio del 1947, aveva lasciato i genitori e i fratelli. Erano anni che non li vedeva. Ma la nostalgia dei suoi cari era tale che, vincendo grandi resistenze interne, dettate dalla paura dei “druzi”, decise di affrontare il viaggio. Passaporti, visti. Settimane per ottenerli. La mamma ed io soli. Papà doveva lavorare.
La primissima volta in realtà non si passò per Kozina. L’automobile non ce l’avevamo e alla corriera non s’era pensato; forse la linea, in quegli anni Cinquanta, ancora non c’era. Si andò con il treno. Papà ci accompagnò alla stazione Termini, al treno delle 22.45 per Trieste. Prendemmo le cuccette e già quei lettini che lasciavano intravedere la lunghezza del viaggio rappresentavano un’emozione. Ci svegliammo al mattino presto, con soste alle stazioni che portavano nomi come Portogruaro, San Giorgio di Nogaro, Monfalcone e che segnavano l’avvicinamento a Trieste. Dopo le pietraie del Carso, comparve il golfo e poi il bianco, fatato Castello di Miramare, a cui il mare, di un azzurro intenso, faceva da sfondo.
La mamma era lì, con lo sguardo fuori del fi nestrino a indicarmi ogni cosa. Quando il treno passò sotto il Faro della Vittoria, sembrava gigantesco, bello in tutta la sua retorica alata. E poi le case di Trieste, i magazzini della Dreher o della Stock, prima di arrivare in stazione. Odore di casa per mamma.
Dopo alcuni giorni trascorsi a Trieste, in casa di una sorella della nonna, riprendemmo il treno, questa volta per Fiume. Poco più di settanta chilometri che avremmo compiuto in quattro, cinque ore.
“Andrà tutto bene, vedrai” rassicurava la zia. “Purché non facciano del male al bambino” “Ma no!”
Erano esagerazioni. Ma quando oltrepassammo il confine, con la dogana, prima quella italiana, poi quella jugoslava, i timori ritornarono tutti. Sul treno i poliziotti jugoslavi salirono armati di pistole e manganelli. Sembrava che fossero lì per arrestare qualcuno.
Vestivano divise grigioblù, il cappello con una grande stella rossa sopra il frontino e tutti avevano volti duri, tesi, severi. Parlavano una lingua sconosciuta, dura anch’essa, solo vagamente assomigliante a quella della nonna a Roma, che parlava “ponaše”, come si usa ad Albona. Li costrinsero a portare le valige giù dal treno, al posto di polizia, per il controllo. Una delle guardie prese il passaporto della mamma, sul quale figuravo anch’io, e lo portò via insieme a un mazzetto di passaporti degli altri passeggeri. Intanto i doganieri si misero a perquisire le due valige che avevamo, infilando le mani tra la roba, anche tra i regali, cose banali, che mamma
portava per i genitori e i fratelli, regali che guardavano con un sospetto tale da attenderci con muto terrore una reazione qualunque, dalla requisizione all’arresto. La tensione in mamma era palpabile. Le era tornata la stessa paura di quando, per la prima volta, aveva attraversato clandestinamente il confine con papà. Solo che ora non era clandestina.
Era una paura che, in futuro, sarebbe sempre ricomparsa in mamma, così come in papà, tutte le volte che insieme ci saremmo trovati ad attraversare
quel confine.
Il treno restò fermo più di due ore, per tutto il tempo dei controlli: un’attesa che sembrava non finire mai e che rendeva lo scompartimento, dal quale non ci si poteva muovere, simile a una cella. Quando, finalmente, le carrozze presero a muoversi, tirammo un sospiro di sollievo. Non restava che mettersi al finestrino e guardare fuori. Ancora il Carso, con le sue pietraie, i suoi boschi. Gli occhi della mamma presero a luccicare subito
dopo la stazione di Mattuglie, quando il golfo del Quarnero, con le sue isole sullo sfondo, comparve ad un tratto, strappandole un moto di forte commozione.
Anche i miei occhi, come i suoi, erano fi ssi su quelle pennellate di azzurro che comparivano e a tratti sparivano tra i dossi rocciosi e la verzura degli arbusti da farlo apparire inafferrabile. Il golfo fu interamente visibile solo quando, oltrepassato un ponte su una grande strada, a valle della ferrovia apparve il cantiere navale con le sue grandi gru e, poi, le cisterne della raffineria, la zona industriale e, nella rada, alcune navi alla fonda. Io avrei visto anche, allineate, quelle che erano le zattere del silurifi cio Whitehead: servivano a controllare se i siluri, partiti da una stazione di lancio della fabbrica, mantenevano dritta la traiettoria. Li avrebbero tolti di lì a qualche anno.
La mamma tratteneva il pianto. Rivedeva il suo mondo che, fino a quel momento, credeva di aver perduto per sempre. Nella foga tirò giù il finestrino, ma quello che arrivò fu un acre odore di petrolio.
Il treno ormai chiaramente entrava nella zona della stazione tra gli scambi dei binari. Rallentò a poco a poco, con il rumore delle ruote, il caratteristico battito contro le intersezioni delle rotaie, che diventava
sempre più estenuante, mentre cominciava a profilarsi il marciapiede della stazione. La mamma tirò del tutto fuori la testa dal finestrino per cercare
i nonni e gli zii che li attendevano. Eccoli, ancora pochi metri.
“Mamma, papà, Nino, Joli…” la sentii gridare con voce prima limpida poi, subito dopo, strozzata dall’emozione.
Loro erano là, esultarono tra sorrisi che presto si mescolarono alle lacrime di gioia, mentre gli zii, impazienti, presero a correre incontro al treno, verso il finestrino al quale erano affacciati, per raggiungerli prima e stringere loro le mani, già dal marciapiede. Accompagnarono la carrozza, seguendo la progressiva, lunga frenata del treno che sembrava non doversi fermare mai. Un acuto stridore segnò il definitivo arrivo. Gli zii, entrambi magri, zia Joli col viso sbarazzino, zio Nino, alto e già stempiato, si affrettarono a salire sul treno, mentre i nonni, piccoli di statura, dovettero ergersi sulla punta dei piedi per stringere anch’essi le mani, prima degli abbracci, tanto forte era il bisogno di toccarli, di verificare che la loro figlia e il nipote erano davvero lì, in carne e ossa. Piangevano tutti dalla gioia. Non c’era neppure modo di parlare, se non frasi d’amore strozzate che dicevano tutto ciò che per dieci, infiniti anni, si era soffocato dentro a causa di una guerra bastarda che aveva rovesciato il mondo e portato altra gente a governare quei luoghi che sentivamo nostri, dividendo per sempre famiglie, provocando dolore, drammi, strappi, in uno sconvolgimento che nessuno mai, nella indifferenza dei potenti che l’avevano provocato, avrebbe più ricomposto.
Soltanto per me, che vedevo i nonni e gli zii e quei luoghi per la prima volta, privo di quel passato carico di ricordi a cui la mamma li univa, quell’arrivo avrebbe costituito l’inizio di qualcosa che, estate dopo estate, d’allora ritornandoci, mi avrebbe permesso, da quel momento, di costruire una Fiume diversa dalla loro, inevitabilmente contaminata dalla nuova realtà di quel travolgimento epocale scaturito dalla guerra e che avrebbe avuto il suo fulcro nella casa dei nonni a Cantrida. Casa dove il primo maggio scorso ho portato, per una grigliata con la zia e i cugini, i miei amici romani per i quali la parola confine fa parte di una favola che, come tutte, comincia con il fatidico “C’era una volta”.

Diego Zandel

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