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Scotti: non sono pentito (1) (La Voce in più Cultura 24 giu)

«Non mi sono mai pentito di essere venuto qua»

di Silvio Forza

Tanti mi dicevano di stare attento,mi stare zitto. Infatti compresi che in
ogni azienda, c’erano le spie. Però devo dire la mia fede in un domani
migliore io non l’avevo persa.

Qua ci sono delle persone alle quali si dovrebbe dedicare davvero un monumento. Dico subito un nome, Paolo Lettis

Poeta, ricercatore in campo storico, scrittore per l’infanzia, giornalista, traduttore.
Divulgatore e polemista. E poi ancora antifascista, “italiano vero”, animatore culturale ma anche persona politicamente impegnata nelle strutture della Comunità Nazionale Italiana di Croazia e Slovenia. Rispettato da molti, contestato da altri, Giacomo Scotti è senza dubbio uno dei personaggi più rappresentativi della CNI, quasi un marchio, una “presenza” senza la quale la persistenza della cultura italiana in queste terre è difficilmente immaginabile. Nato a Saviano (Napoli) nel 1928, fa parte di quella schiera di intellettuali italiani che dopo la fi ne della II guerra mondiale scelse di vivere, per affi nità ideologica, nella Jugoslavia di Tito: proprio come Alessandro Damiani, Eros Sequi, Sergio Turconi, Lucifero Martini e, per altri versi, Mario Schiavato. Quest’anno Giacomo Scotti compie ottant’anni, l’età buona per raccontare una vita vissuta abbastanza fuori del comune.

Scotti, le vicende belliche dopo il 1943 fanno sì che a fine guerra lei si trovasse nell’area giuliana. Ad un certo punto decide di varcare la soglia di Gorizia. Perché?
Un po’ per via delle vicende belliche, un altro po’ causa motivi che potrei definire famigliari. Mio fratello era ufficiale della Marina da Guerra a Pola dove si è sposato. Dopo la sua morte, avvenuta nel corso della battaglia marittima di Capo Matapan il 28 marzo 1941, naturalmente mio padre si prese cura di tutti i suoi figli: di una bambina di due anni e di un bimbo di cinque o sei anni che cantava sempre „ el mio marì el xe bon, el xe tre volte bon, ma solo la domenica el me onsi col baston “. Ma a parte quest’episodio, una volta cresciuto compresi che dovevo aiutare la famiglia, anche perché erano morti due miei fratelli maggiori uccisi dai tedeschi e un altro era stato fatto prigioniero dagli alleati e mio padre era morto di crepacuore. Così ho lasciato il ginnasio, avevo finito la quinta ginnasiale, e per guadagnare qualche soldo sono andato a fare la “mascotte” con gli alleati.

Cosa vuol dire fare la mascotte?
Facevo l’attendente della Capitanessa. Ero nella Royal Air Force, nell’aviazione, nella Raf con gli scozzesi, ero anche vestito da scozzese. E con gli alleati sono arrivato fino a Monfalcone. Però volevo andare a vedere ‘sta Pola, l’Istria.“

Non sarà stato soltanto per via della canzonetta? Ci sarà stato di mezzo qualche ideale?
Io ero anche ispirato dagli ideali socialisti…

E quando e come li aveva fatti propri?
Direi da subito. A 15-16 anni sono entrato a far parte della Federazione giovanile italiana comunista e alla fine mi hanno buttato fuori dall’esercito. Era il 1946 e dalla fine della guerra mi trovavo a Monfalcone. Così sono andato a lavorare a Ronchi dei Legionari presso un signore che aveva un’officina per le riparazioni di biciclette e altre cose il quale voleva addirittura adottarmi perché gli ero simpatico. Era una famiglia comunista”.

Dunque abitava a Ronchi, dove lavorava, era già animato da ideali di sinistra, e poi c’è l’esperienza biografi ca legata alla permanenza del fratello, marinaio a Pola. Si sta dunque profilando la scelta jugoslava.
Sì, le due cose si sono confuse. Ad un certo punto dissi al titolare dell’officina che avrei voluto portare a termine gli studi scolastici, finire il Liceo. Lui mi rispose più o meno così: ”guarda che qua io non posso far nulla per te, ma se vai in Jugoslavia ti faranno studiare.“

Come si chiamava quel signore?
Vittorio Zotich

E aveva dunque dei collegamenti oltre confine
Sì, ma in quei tempi, non soltanto da Monfalcone, ma anche da Staranzano, Ronchi dei Legionari, Gradisca d’Isonzo, intere famiglie scelsero di varcare la frontiera. Così anch’io mi sono incolonnato con due famiglie e ho passato il confine. Però, mentre loro riuscirono a proseguire, io fui fermato dalla polizia.

Che polizia“?
Quella jugoslava, la KNOJ. Così mi son fatto due mesi di un campo che chiamavano “baza emigranata” dove ogni giorno bisognava rispondere agli interrogatori.

Dove si trovava il campo?
Il paese si chiama Vrhpoje, vicino ad Aidussina.

Quando esce cosa fa, torna in Italia?
No. Dopo avermi interrogato mi hanno mandato a Lubiana, dove un tale Regent, che lavorava presso il ministero alla cultura, notò che me la cavavo con la scrittura – perché già nel campo ci facevano scrivere i giornali murali, e io scrivevo poesiole – e così decisero di mandarmi a Pola dove c’era l’Unione italiana.

Quando?
Siamo già nel ’47, dopo il 16 settembre, appena finita la grande ondata dell’esodo da Pola

Dunque Pola è già diventata jugoslava quando arriva lei.
Sì, definitivamente. E ho trovato una Pola deserta: la mattina, al mercato di Pola, vicino a via Cenide, dove c’era la sede dell’Unione degli Italiani, non c’era niente. Una città povera, abbandonata, insomma. Mi fa ancora male ripensarci.

Le prime persone che ha conosciuto a Pola? E cosa faceva in città?
Eros Sequi, che era segretario dell’Unione degli Italiani, e la signora Sansa che era stata partigiana, faceva la segretaria del segretario. Una persona molto colta. A Pola mi sono fermato per qualche mese scrivendo giornali murali e collaborando con l’Unione degli Italiani. Mangiavo in una mensa operaia.

Poi la mandano a Fiume, la prima volta.
Sì, mi mandano a Fiume, mi dicono di presentarmi al compagno Erio Franchi, direttore della “Voce del Popolo”. Lui mi fa fare il correttore di bozze e mi manda a lavorare in tipografi a. Ogni due o tre giorni bisognava fare il rapporto: da napoletano che ero e che sono rimasto non ero inserito troppo nell’ambiente, non facevo parte del partito, quindi non partecipavo alle riunioni e mi esprimevo alla maniera mia. Era la maniera libera di un italiano qualunque e nei rapporti cominciai
a far notare che i giornalisti facevano troppi errori di sintassi e ortografia e di conseguenza mi misero alla prova come giornalista. Qualcuno mi disse “oggi Scotti vai a vedere il cantiere dell’autostrada Mlaka – Can-
trida e scrivi quel che vedi”. E io vedevo la gente che si fermava
troppo spesso, non lavorava, ogni tanto si metteva là e fumava, e questo ho scritto. Insomma fino a quel momento in tutti gli articoli si leggeva che la norma era stata superata, evviva il socialismo, ecc. ecc. Io comunque continuavo a fare il correttore di bozze: ma quella sera vidi su cinque colonne il mio articolo. Non stavo più nella pelle, tremavo e allo stesso tempo ero troppo contento che questo mio pezzo fosse finito in terza pagina. Dopo qualche giorno mandarono al posto mio a fare il correttore quel giornalista che faceva un sacco di errori, un certo Del Fabro, un friulano, e fui richiamato definitivamente in redazione.

Chi c’era allora alla “Voce”?
Erio Franchi, una persona molto colta, era stato partigiano. Poi c’erano Lucifero Martini e un certo Ciso, Narciso Turk, il segretario del Partito che però era stato il primo ad andare via, già nel ’50. Poi c’era Giovanni Barbalich, Nini, che poi ha avuto dei dispiaceri perché suo padre era stato perseguitato come cominformista. Lo costrinsero a lasciare il posto di lavoro e lo fecero lavorare in porto, cosa che più tardi succederà pure a me. Ricordo anche Emilio Tomaz di Montona che curava la rubrica contadina, le cooperative. Lui finirà a Goli Otok. Comunque eravamo una trentina in tutto.

Nel 1951 la spostano di nuovo a Pola
Sì, quando andò in disgrazia Bruno Flego che era il capo della redazione di Pola. Socialista, sempre dalla parte degli operai, Flego aveva criticato alcuni fenomeni e denunciato alcune ingiustizie. Invece di appoggiarlo, lo spedirono a lavorare in miniera. Siccome, per altre ragioni, era stato allontanato anche Romano Farina, nella redazione polese avevano bisogno di un giornalista e mandarono me che ero libero da legami familiari. Più tardi conobbi Flego molto meglio: era un tipo che mi è sempre piaciuto.

Chi trovò a Pola?
Claudio Radin, che era il più anziano. Tra i collaboratori esterni ricordo Massimiliano Volghieri, poi diventato preside della scuola elementare italiana e il professor Domenico Cernecca che era il direttore del Ginnasio italiano. E che prima era stato direttore de “Il nostro giornale”, il quotidiano polese italiano fi lojugoslavio tra il 1945 e il 1947.

Che personaggio era Cernecca?
Era un personaggio veramente molto colto, molto a posto, una persona molto onesta, soprattutto. Quando dico onesto penso a qualche altro tra i comunisti che troppo onesto non lo era tanto. Onesti erano Flego e Mario Jadreicich, un comunista vero che ci stava sempre addosso.

E Francesco, che è poi diventato Franjo Nefat, primo sindaco di Pola jugoslava, l’ha conosciuto”?
Sì, l’ho anche intervistato. Lui era stato più influente nel periodo bellico.

A Pola ottiene la cittadinanza jugoslava.
E vado a fare il militare. A Zagabria e Lubiana”.

Ha avuto dei problemi”?
Ho avuto dei problemi a Lubiana legati alla crisi di Trieste. Andai dal colonnello, gli chiesi di poter parlare all’uomo, non all’uffi ciale, e gli dissi che io, per quanto fedele alla Jugoslavia, non avrei sparato contro i miei fratelli italiani. L’ufficiale mi consigliò di non dirlo a nessun altro, pena il Tribunale militare, e mi spedì a lavorare in biblioteca.

Come l’ha vissuta la crisi di Trieste?
Sono stato molto male. Con me a Lubiana c’era anche il calciatore Aldo Drosina di Pola che condivideva i miei timori. Seppi che a Fiume era stato assalito il Circolo Italiano di cultura e che avevano rimosso la bandiera italiana con la stella rossa. Feci a pugni con un caporale che aveva detto che gli italiani sono tutti fascisti. Mi misero in prigione. Brutti ricordi.

Quali erano le sue aspettative, Trieste italiana o Trieste jugoslava?
Io non avevo alcune aspettative di tipo politico, in quei momenti potevano parlare le armi. Ho vissuto per alcuni mesi l’incubo della possibile guerra, non mi interessava a chi dovesse andare Trieste”.

Dopo il servizio militare lei torna a Pola.
Sì. Sono rimasto a Pola fino al 1964. Ma ho avuto costantemente dei problemi, erano al corrente del mio dossier militare. A Pola mi sono sposato, ma a causa dei costanti problemi la famiglia si è rovinata.

Lei arriva in Istria e a Fiume in un momento in cui si sta edificando il socialismo. Quali sono state le sue prime impressioni?
Non essendo membro del partito comunista, le cose le vedevo dall’esterno. Devo dire che vedevo una società in cui comunque vivevo molto meglio rispetto a prima, in Campania, nella mia famiglia contadina. Anche se si mangiava male, i miei ricordi privati di quel tempo sono belli: potevo andare al cinema, andare ai balli, e poi mi innamoravo facilmente.

E i ricordi, diciamo, pubblici? Ha avuto qualche dubbio sui metodi del nuovo regime?
Io ero molto critico e criticavo apertamente le cose che non mi piacevano. Tanti mi dicevano di stare attento, di stare zitto. Infatti dopo poco compresi che in ogni azienda, compresa la nostra redazione, c’erano le spie. Però devo dire che il mio entusiasmo, la mia fede in un domani migliore io non l’avevo persa.

E quando arriva la circolare Peruško che impone di trasferire immediatamente nelle scuole croate tutti i ragazzi dal cognome che suonava croato o slavo?
Di quella tremenda circolare parlai in una riunione del Fronte popolare perché proprio non la potevo digerire. E come la dovevamo mettere con i tantissimi cognomi italiani in Dalmazia portati da autentici croati? Oppure Zambelli a Fiume, tanto per fare un esempio? Posso dire che quella volta è iniziata la mia battaglia su questa faccenda, su Francesco Patrizio, sulla tutela dell’identità italiana in questi territori misti, dove nomi e cognomi spesso si devono alla casualità. Anche una volta tornato definitivamente a Fiume, nel 1964 feci una cosa simile: scrissi che prima di diventare jugoslava Fiume era già stata austriaca, ungherese, italiana. Il bello è che l’articolo non era stato ancora pubblicato. Evidentemente qualcuno in redazione andava a rovistare nei miei cassetti, così venni arrestato e portato nel carcere fiumano di Via Roma. Li ho subito quotidianamente interrogatori notturni e la presenza di un provocatore in cella. Mi scarcerarono dopo un mese, mi imposero di lasciare la redazione e dovetti andare a lavorare in porto. Ricordo che l’ufficiale dei servizi segreti mi disse che non avrei mai più pubblicato una parola. Però già in porto ho lavorato con un giornaletto”.

Quanto rimane lontano dal giornale?
Quattro o cinque anni. Però devo dire una cosa. Qua ci sono delle persone alle quali si dovrebbe dedicare davvero un monumento. Dico subito un nome, Paolo Lettis, che è stato per lunghi anni caporedattore alla “Voce del Popolo”, il quale non si è fatto mai mettere sotto. Non era un uomo che prendeva il telefono per chiamare il Komitet e prendere ordini. Era uno che pensava con la propria testa. Dopo i miei primi interventi, era stato lui (poi seguito da Giovanni Radossi) a polemizzare con Zvane Črnja e gli altri a proposito di Istria Nobilissima o del tunnel del Monte Maggiore. Lo aveva fatto per tutelarmi poiché io non ero membro del partito ed ero facilmente attaccabile. È grazie a Lettis, che era venuto a trovarmi di persona al porto, se sono rientrato alla “Voce del Popolo”. Quando me lo propose, gli dissi stupito che “qui comanda il Partito, ti mette di qua, ti toglie di là, ti dà un calcio nel sedere, fa di te quello che vuole”, ma lui mi disse di non preoccuparmi. Così rientrai all’EDIT per rimanervi fino al 1970, quando andai di nuovo in disgrazia.

Per quale motivo?
Scrissi un articolo per il “Piccolo ” di Trieste in cui, sotto le spoglie di una recensione del libro di Vladimir Dedijer su Tito, rendevo noti alcuni particolari scottanti della vita del Maresciallo. Mi attaccarono anche in televisione e così me ne dovetti andare. Devo dire però che grazie a Lettis, che mi aveva salvato di nuovo, e a Luciano Giuricin, mantenni con “La Voce” una collaborazione pagata a riga.

Dopo le esperienze da militare, dopo l’esperienza della circolare Peruško, dopo la prima volta del carcere di Via Roma e il lavoro in porto, avrà pur iniziato a dubitare sulla scelta che aveva fatto. Insomma si è pentito di esser venuto in Jugoslavia?
Sì, ho dubitato. Tuttavia devo dire che, anche se non avevo più fiducia né amore per il regime, per il sistema, ma non mi sono mai pentito di essere venuto. E poi qui sono nati i miei figli, qui ci vivono.

La seconda parte dell’intervista uscirà nel numero di luglio di questo Speciale

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