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Una lezione per il presente e il futuro (Difesa Adriatica feb ’10)

Una riflessione sui tragici eventi richiamati dal Giorno del Ricordo, ma anche un auspicio per il futuro: questo è il senso del­l'articolo del quale Anna Maria Mori, scrittrice e giornalista esule da Pola, ci fa dono in questo 10 febbraio 2010. Una testimonian­za, la sua, della intensità della re­lazione con i luoghi natali e la memoria, ma anche una lucida espressione del dovere di trarne significative riflessioni. La nostalgia si colora delle tonalità del mare, della trasparenza dell'acqua: elementi che mai altrove gli esuli hanno ritrovato eguali.
 

Grazie! È la prima parola che mi viene in mente di fronte all'istituzione, oramai fortunatamente consolidata nel nostro Faese, del Giorno del Ricor­do. Dico grazie in prima persona, ma sono sicura di poterlo dire a nome di tutti gli istriani come me. Perché è, vorrei dire bello ma forse non è neanche la parola giusta, la parola giusta è "importante": è importante che finalmen­te non siano più solo nostri, quasi forzatamente segreti, e persino agli occhi di alcuni "vergognosi" , il nostro ricordo e i nostri ricordi di atrocità subite (le Foibe), di forzato allontanamento dalla nostra terra e dalle nostre case (l'esodo), il ricordo della paura, della fuga da un odio ingiustificato e ingiustificabile, la realtà dello sradicamento dalla nostra terra, dalle nostre case, e dalla nostra koiné che pure qua e là abbiamo cercato di ricostruire, il nostro coraggio e la forza (che dovrebbe essere esemplare per tutti) di ricominciare a partire dall'azzeramento di tutto quello che eravamo ed avevamo.

È importante, seppure purtroppo tardivo (molti di noi, quando il Giorno del Ricordo è finalmente arrivato, non sono riusciti a vederlo: non c'erano più), che finalmente tutti gli italiani sappiano, che il ricordo appartenga all'intera collettività: che ci sia un "noi" che è anche un "voi", e il noi e il voi insieme si traduca in un "tutti". Credo sia questo il senso e il significato dell'istituzione del Giorno del Ricordo: noi istriani, fiumani e dalmati con la nostra storia e la nostra tragedia siamo finalmente entrati a pieno diritto e a pieno titolo a far parte della storia italiana, della storia di tutti gli italiani. E vorrei, mi piacerebbe, che entrassimo non solo nella Storia del passato, ma anche nel Presente – questo nostro presente ogni giorno più confuso anche perché attraversato da mille contrapposizioni più o meno interessate, ma non per ciò meno pericolose – non solo come le vittime che indubitabilmente siamo stati, e che continueremo ad essere perché ci sono ferite che purtrop­po non si rimarginano, ma persino con la dignità, il rispetto, il diritto all'at­tenzione e all'ascolto che vengono riconosciuti ai Maestri.

Perché noi abbiamo diritto a questo titolo e a questo ruolo. Non solo perché siamo stati capaci di rinascere dalle ceneri della nostra tragedia (e molto spesso con notevoli successi e vittorie magari solitarie e perciò poco conosciute), ma perché siamo testimoni di un passato che sarà tanto più vivo quanto più servirà a leggere anche il presente, a interpretarlo in manie­ra il più possibile corretta, a evitargli la tentazione di incorrere in errori e tragedie che noi abbiamo conosciuto tragicamente sin troppo bene.

Tra di noi c'è chi si accontenta della rabbia (mai sopita), o della nostal­gia, e "la nostalgia" (cito la grande scrittrice americana Joyce Carol Oates, con la quale peraltro personalmente concordo) a volte può essere «la più stupida delle emozioni», nel senso che è un'emozione, sì, certo, anche ineliminabile, è però sterile, fine a se stessa. Se il passato deve essere cono­sciuto proprio e soprattutto per far luce sul presente, non servono né la rabbia né la nostalgia. Serve la caparbia ostinazione a conoscerlo e a farlo conoscere, proprio per non ripeterne gli errori. E gli errori, ma sarebbe più corretto chiamarle mostruosità, del passato di cui noi siamo testimoni e vittime, sono i nazionalismi esasperati, la difesa della "purezza etnica", la paura e di conseguenza l'odio viscerale e ingiustificato per il "diverso" (nel nostro caso l'italiano, visto dal croato o dallo sloveno), l'intolleranza che finisce per trasformarsi in ferocia nei confronti di tutto ciò che risulta essere nuovo ed estraneo e che turba in un modo o nell'altro antiche e consolidate certezze.

In nome di tutto questo io vorrei, mi piacerebbe sperare che il Giorno del Ricordo diventasse anche una specie di giorno di preghiera. Sì, per i nostri morti trucidati barbaramente nelle Foibe, o per i nostri nonni e padri e madri che nell'esilio non hanno mai trovato pace, ma anche per i loro figli e nipoti che possano farsi, in nome di quello che hanno conosciuto e subi­to, promotori di tolleranza e di pace. Ricordandosi sempre di quando "i diversi" siamo stati noi.

Anna Maria Mori

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