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Un altro studio sulle foibe istriane (Osservatore Romano 13 dic)

di Gaetano Vallini

Pur nella consapevolezza che c'è sempre spazio per la ricerca storiografica, in Italia si pensava che sulle foibe – fenditure carsiche in cui i partigiani titini gettarono i corpi dei nemici durante e dopo la fine della seconda guerra mondiale – si fosse ormai giunti a una verità dalle radici salde. Tuttavia la pubblicazione del libro di Joze Pirjevec Foibe. Una storia d'Italia (Torino, Einaudi, 2009, pagine XVIII + 376, euro 32) ha riaperto in modo inatteso la questione, ottenendo tuttavia più critiche che apprezzamenti. Il perché sta nella tesi di fondo sostenuta dall'autore:  in un'Italia soggetta a "una crisi d'identità e di coesione nazionale" – seguita al crollo del Muro di Berlino, alla successiva scomparsa del vecchio sistema partitico dopo tangentopoli e all'emergere sul palcoscenico politico di una forza dichiaratamente secessionista come la Lega Nord – "la vicenda delle foibe si prestava perfettamente allo scopo" divenendo a partire dagli anni Novanta "una questione nazionale grazie a un'azione propagandistica d'indubbia abilità ed efficacia".

Una propaganda che, secondo l'autore, ha visto unirsi in una operazione di reciproco sdoganamento morale – con apice l'incontro a Trieste tra Gianfranco Fini e Luciano Violante nel marzo del 1998 – le forze di destra (ex missini) e quelle di sinistra (ex comunisti), le quali pensarono di rispondere a quella crisi d'identità e di coesione "facendo ricorso allo strumento più ovvio e tradizionale:  quello del nazionalismo".

Non solo. A corollario di ciò, lo storico dell'Università di Koper/Capodistria aggiunge che l'esodo di centinaia di migliaia di italiani giuliano-dalmati dopo gli accordi di Osimo (da 250.000 a 350.000 a seconda delle fonti), sarebbe scaturito dal rifiuto di un popolo di "indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta a farsi comandare dagli "s'ciavi", per giunta comunisti", e non già conseguenza di una pianificata opera di espulsione, cosa questa peraltro confermata molti anni dopo da Milovan Gilas, braccio destro di Tito e vice primo ministro (intervista a "Panorama" 21 luglio 1996). La stessa strage di Porzus, che vide i comunisti uccidere i partigiani della brigata Osoppo che non volevano indossare la divisa titina riconoscendo di fatto l'occupazione del Friuli da parte della Jugoslavia, viene definita "episodio marginale pur nella sua tragicità" ma che ha assunto "dimensioni sproporzionate" nella memoria. Eppure altri storici, come Elena Aga Rossi, ritengono quella strage il risultato di un'azione politica tesa all'eliminazione di quanti si opponevano all'annessione.

In sostanza, il libro di Pirjevec – che ospita contributi specifici sul caso delle foibe istriane del 1943 (Darko Dukovski), sull'esame dei documenti negli archivi sloveni (Nevenka Troha) e in quelli britannici e statunitensi (Goradz Bajc), nonché sulla riscoperta delle foibe in Italia e sul suo uso pubblico durante e dopo la guerra fredda (Guido Franzinetti) – sostiene che ci sarebbe una sorta di continuità tra la propaganda nazista sulle foibe istriane e la loro "riscoperta" degli anni Novanta, attraverso un'operazione politica e culturale revisionista, fino all'istituzione, nel 2004, del Giorno del Ricordo (10 febbraio) e della forte presa di posizione del Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, nel 2007.

Ricostruendo le tragiche vicende seguite prima all'8 settembre 1943 e poi al 25 aprile 1945, il Capo dello Stato disse che "vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo (…) che assunse i sinistri connotati di una "pulizia etnica"". Inoltre, aggiunse, va ricordata "la "congiura del silenzio", la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell'oblio (…) Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell'aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell'averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali".

Criticando fortemente queste affermazioni, come pure le prese di posizione della stampa italiana di un decennio prima colpevole di avere sostenuto le tesi revisioniste della destra, Pirjevec offre una sua interpretazione. E con il supporto di Franzinetti rileva come una tale lettura avesse per corollario la rimozione dalla memoria italiana delle responsabilità del fascismo nelle brutali violenze perpetrate ai danni delle popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia e durante l'occupazione della Jugoslavia, con l'intento di presentare all'opinione pubblica italiana alcuni carnefici come vittime. Pur non escludendo casi in cui alcune bande di partigiani titini uccisero anche cittadini italiani che non avevano avuto nulla a che vedere con il regime, nel libro si sostiene che le vittime delle foibe – il cui numero, si dice, fu gonfiato enormemente e si parla di circa 3.500 morti accertati (ma solo nella zona di Trieste) – furono sostanzialmente repubblichini, esponenti del partito più o meno influenti, collaborazionisti e semplici simpatizzanti del fascio, militari tedeschi, ma anche alcuni croati italianizzati. Dunque non varrebbe la propagandata lettura degli italiani assassinati solo in quanto tali in una pianificata strategia tesa allo sradicamento della popolazione italiana dalla Venezia Giulia.

È indubbio che sulle foibe, dopo un lungo e colpevole silenzio, negli ultimi anni ci sia stata una sovraesposizione mediatica, dovuta anche alle vicende sopra descritte, che le ha portate a conoscenza dell'opinione pubblica. E se Pirjevec correttamente sottolinea le aspirazioni nazionali di sloveni e croati a lungo mortificate e il disprezzo con cui questi sono stati guardati dagli italiani ancor prima della grande guerra e poi durante il fascismo, meno condivisibile appare l'affermazione secondo cui "la storiografia (non meno che la pubblicistica) non ha affrontato adeguatamente molti problemi, come dimostra il persistere dell'idea degli "italiani brava gente" o anche solo le reazioni al film di Spike Lee sulla vicenda di Sant'Anna di Stazzema". Premesso che quest'ultima pellicola – Miracolo a Sant'Anna – è talmente superficiale dal punto di vista della ricostruzione da essere storicamente irrilevante anche per i revisionisti, l'autore e i suoi collaboratori sembrano dimenticare opere significative come quelle di Angelo Del Boca (Italiani brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005) e di Gianni Oliva (Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani 1940-43, Milano, Mondadori, 2006) che danno conto delle atrocità compiute dai soldati del Regio esercito e dai militi fascisti (che in alcuni casi non disdegnarono l'uso delle foibe per disfarsi dei corpi dei partigiani jugoslavi assassinati).

Lo stesso Oliva nel 1992 nel libro Foibe (Mondadori), aveva effettivamente riconosciuto che le foibe (dalle quattro alle cinquemila vittime, secondo l'autore) si inquadravano in una strategia politica mirata, diretta a colpire non gli italiani in quanto tali, ma tutti coloro che si opponevano all'annessione delle terre contese alla nuova Jugoslavia:  caddero, quindi, collaborazionisti e militi della Repubblica di Salò, ma anche membri dei comitati di liberazione nazionale, partigiani combattenti, comunisti contrari alle cessioni territoriali e, ancora, cittadini comuni, travolti dal clima torbido di quelle settimane. E sul silenzio per quelle stragi, negate per oltre mezzo secolo, si chiamano in causa le attenzioni dell'Occidente per Tito dopo la sua rottura con Stalin nel 1948, la preoccupazione del Governo italiano per i risultati della conferenza di pace, la volontà di proteggere i presunti criminali di guerra italiani (di cui la Jugoslavia chiedeva l'estradizione) e le contraddizioni della politica estera togliattiana, stretta fra interessi nazionali e dimensione internazionalista.

Una lettura, questa, più equilibrata di quella di Pirjevec che meriterebbe ben altra attenzione se fosse meno sbilanciata sul versante slavo e meno tesa a minimizzare gli infoibamenti, negando che diverse vittime avessero pagato effettivamente il loro solo essere italiane. C'è, dunque, una tesi pregiudiziale che limita la portata di un lavoro che pure contiene aspetti interessanti soprattutto sui rapporti tra le popolazioni italiane, slovene e croate, nonché in relazione alle fonti angloamericane.

Del resto il volume definisce "olocaustizzazione" il processo di riconoscimento di quei luttuosi fatti – un accostamento decisamente eccessivo – stigmatizzando anche il percorso che ha portato alla "sacralizzazione" dell'evento per mezzo della ritualizzazione della commemorazione delle vittime delle foibe con l'istituzione del Giorno del Ricordo. A tal proposito si potrebbe riproporre quanto scritto da Claudio Magris il 10 febbraio 2005 sul "Corriere della Sera" in occasione del primo Giorno del Ricordo:  "Le vittime delle foibe (…) non valgono meno delle vittime della Shoah. Ma non si possono storicamente equiparare le foibe alla Shoah e non solo e non tanto per il divario numerico, ma perché in un caso si è trattato del pianificato progetto di sterminio di un popolo intero e nell'altro di una violenza nazionalista-sociale-ideologica, simile a tanti altri episodi accaduti in analoghe circostanze di guerra e di collasso civile, ma non per questo meno orribile o più giustificabile".

Allo stesso modo si potrebbe rileggere l'articolo scritto tre giorni dopo da Enzo Bettiza su "La Stampa" dal titolo significativo:  "Foibe. La memoria non condivisa":  "Il binomio stesso di "memoria condivisa" ha in sé qualcosa di consociativo, di bipartisan, di politicantesco. Qualcosa che con altre parole potrebbe evocare una nuova forma di compromesso storico:  una sorta di patto di non aggressione fra una sinistra decomunistizzata, improvvisamente autocritica dopo mezzo secolo di silenzio sulle foibe e sull'esodo, e una destra defascistizzata, pervicacemente rivendicativa, che per mezzo secolo aveva continuato a parlare dell'esodo e delle foibe in termini demagogici, ultranazionalisti, antislavi, insomma assai poco europei. Tracciare gerarchie del male è spesso operazione opinabile e sconsolante. Tuttavia, a quelli che più hanno levato la voce sulla nefandezza delle foibe, come non ricordare che i loro precursori avevano dato nel 1920 alle fiamme l'Hotel Balkan, centro culturale degli sloveni di Trieste, trasformando la città e il contado in un poligono di prova dello squadrismo che lì a poco sarebbe dilagato per l'intera Penisola?".

In conclusione il libro di Pirjevec dimostra che forse è tempo di prendere atto del fatto che su alcuni episodi è difficile se non impossibile giungere a una memoria condivisa, e che meglio sarebbe allora parlare di storia condivisa. Perché la memoria è troppo soggetta alle emozioni. E le emozioni annebbiano la verità.

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