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Trieste: le tre Pasque senza steccati (Il Piccolo 03 apr)

Oggi davanti alla chiesa dei greci hanno pensato di mettere un capolinea d’autobus. Ben davanti all’iconostasi e al Santissimo.

Quest'anno dunque celebrerò una pasqua plurale. E lo farò più volentieri del solito, per polemica. Non amo le chiese che diventano luoghi secolari, e quelle cattoliche lo stanno diventando. Il dibattito tra un vescovo e Susanna Tamaro – quello avvenuto poche settimane fa in cattedrale – era interessante quanto si vuole ma cosa aveva a che fare con la storia millenaria di San Giusto, le sue romane fondamenta, la sua anima veneto-bizantina? Cosa ha a che fare col sacro? La domenica delle Palme, sempre in cattedrale, sono stato investito anche lì da un’onda d’urto di decibel, sotto forma di chitarre e cori amplificati da altoparlanti anche all’esterno: in Europa era la festa dei giovani, d’accordo, ma quei canti facevano pensare più a un bivacco scout che al nostro glorioso Maestro lassù.

Come ovunque in quest’Italia di oggi, e più che mai in questa Trieste che rinnega se stessa e la sua identità plurale, anche nei luoghi di culto si uccide il silenzio, la penombra, la preziosità del simbolo isolato nel vuoto risuonante di una cripta, per sostituirli con ciance, musiche profane, rumori. È questo che sta minando la Chiesa romana, assai più degli scandali di queste ore. La fine del silenzio, che oggi sopravvive solo nelle chiesette semidimenticate di periferia, dove non ci sta nessuno o vengono spediti i preti scomodi. Per questo, domenica scorsa, sono uscito di chiesa e sono andato a chiedere asilo nel silenzio di San Silvestro, dai valdesi. Poi ho cercato i greci, e infine i serbi.

Che tuono unitario che c’era lì sotto la cupola affacciata sul Canale! Che commozione, che festa di popolo! Mentre un coro potente scendeva dalla balaustra e il pope barbuto mostrava il Sacramento, centinaia di candele bruciavano contemporaneamente, in alto per i vivi, in basso per i morti, ed erano talmente tante che un distinto signore in cravatta aveva il solo compito di sorvegliare che tutte bruciassero a dovere. E quando il mio cero, messo lì a memoria dei miei, ha dato segni di cedimento per la vicinanza di altri fuochi, una donna l’ha raddrizzato anche se non era il suo. Ovunque sentivi, più che l’imminenza della morte di Lui, l’impazienza per la sua resurrezione, l’attesa spasmodica della ”lunga notte” che sarà interrotta dall’urlo ”È vivo!”. Ti sentivi ad Antiochia, nelle terre aramaiche dove i cristiani presero il loro nome. In Siria, a Costantinopoli, Atene, Belgrado. Questa è Trieste.

Abbiamo bisogno di quel canto. I preti cattolici – diciamocelo – sono stonati, quelli ortodossi no; per i secondi essere incapaci di salmodiare è un handicap vissuto ai limiti della vergogna, un fattore che inibisce persino la carriera. Nelle nostre chiese, invece, il coro dei fedeli non esiste da decenni, abbiamo bisogno di cori professionali (uno proveniente da Belgrado si esibirà lunedì sera in Cattedrale, finalmente un bel segno!) per colmare questo vuoto acustico. Domani, dunque, farò il giro delle sette chiese, e lo farò con un intento speciale: rivendicare – accanto alla mia cultura cattolica – la mia anima di frontiera che non ne può più di divisioni, transenne, steccati mentali. E, già che ci sono, andrò a dare un saluto ai turchi sul traghetto che parte per Istanbul e le sue moschee d’Oriente.

Paolo Rumiz

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