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Trieste, 13 luglio 2010 (arenadipola.it 26 lug)

Sul “Concerto dell’Amicizia” diretto dal Maestro Riccardo Muti, tenutosi a Trieste lo scorso 13 luglio, è stato speso, prima e dopo, un fiume di parole con vortici di retorica, mulinelli di preconcetti e luoghi comuni, ingorghi di speculazioni politiche e diplomatiche…

Chi ha seguito il dipanarsi dell’intera vicenda avrà già saputo del “tutto ed il contrario di tutto” che al proposito è stato detto: «evento epocale», «riconciliazione, ormai ci siamo», «niente sarà più come prima», «…inteso come segno di riconciliazione tra italiani, sloveni e croati [il concerto] ha assai poco di epocale ed ancor meno di nobile », «mi vergogno di essere italiano », «dico no a chi cancella la memoria»… tanto per citare. Inutile ripercorrere le stesse piste. Sulle pagine di questo giornale, che all’argomento proprio estraneo evidentemente non è, sembra più opportuno fare, invece, uno sforzo di obiettività.

L’iniziativa del Maestro Muti di portare a Trieste il Concerto è stata assolutamente encomiabile anche in considerazione del contesto nel quale l’aveva concepita: l’Amicizia, appunto, che ha la sua massima valenza nel momento in cui è in essere ed, eventualmente, in divenire. Ora, che Italia, Slovenia e Croazia siano oggi amiche e che abbiano tutto l’interesse ad una proficua collaborazione nel nuovo assetto europeo è evidente e proprio questo il concerto, alla presenza dei tre Presidenti, voleva sottolineare. Sembrerebbe, per quanto ci è dato sapere, che nelle intenzioni del Maestro non ci fosse assolutamente quell’intento riconciliatorio, per quanto accaduto in passato, che è stato poi introdotto da altri. In particolare, è in questa nuova ottica che elemento di criticità è risultata essere la scelta della data d’esecuzione – peraltro, ricorrente in questo periodo dell’anno – fatta dal Maestro. Tuttavia, nessun rilievo può essergli mosso per essere stato all’oscuro dell’incendio dell’Hotel Balkan – e dei suoi significati politici – occorso precisamente quel giorno di novanta anni fa a Trieste; l’inopportunità della scelta doveva, semmai, essere rilevata dai nostri governanti che ancora una volta, non avendolo fatto e imposto di conseguenza un cambiamento, hanno dimostrato tutta la loro leggerezza, ignoranza ed ignavia.

Di contro, non ci si può sorprendere che gli sloveni, con la protervia che è loro propria, abbiano colto, con intenti chiaramente revanscisti, la palla al balzo e che il loro presidente Türk abbia brutalmente ricattato il suo omologo ed ospite Napolitano, subordinando la sua presenza alla resa d’omaggio congiunto all’Hotel Balkan, elevato a “simbolo della sofferenza del popolo sloveno”. Ancora, non può che risultare apprezzabile l’agnostica moderazione con cui il Presidente croato, Josipovic, si è fatto coinvolgere nell’evento venendo poi, per questo, attaccato sulla stampa dai falchi di casa sua. Dal ricatto di Türk al supposto cedimento di Napolitano il passo è breve. Tuttavia, nella circostanza, ben poco, a livello personale, appare imputabile al nostro Presidente, al quale, quantomeno, andrebbero riconosciute tutte le attenuanti del caso. Da quanto letto sulla stampa e da quanto riferito ai rappresentanti di tutte le associazioni degli esuli (incluso chi scrive) da una fonte autorevole, il Presidente avrebbe opposto, pur con l’obiettivo di salvare l’iniziativa, ogni possibile resistenza “cedendo” al ricatto solo quando si è visto spiazzato dall’improvvida e compromissoria proposta per un omaggio congiunto dei tre Presidenti al succitato Hotel Balkan ed al Monumento all’Esodo avanzata dall’ex Sen. Lucio Toth (per gli esuli) e dall’ex Sen. Miloš Budin (per gli sloveni). Che altro avrebbe potuto fare per salvare capra e cavoli?

Resta, peraltro, apprezzabile il fatto che abbia imposto modalità attuative del cerimoniale ben diverse da quelle eclatanti e parolaie inizialmente richieste dalla controparte slovena. In definitiva, il cedimento non è venuto dal Presidente ma da coloro che, dichiaratisi rappresentanti delle massime espressioni del mondo della diaspora, per primi, anziché proporre il compromesso, avrebbero dovuto opporvisi perché non era certamente questo il tipo di atto riconciliatorio che molti, inclusi tantissimi esuli, desiderano ed aspettano come inequivocabilmente dimostrato dal vuoto assoluto in cui l’omaggio al Monumento all’Esodo ha avuto luogo. Il tutto alla faccia della supposta maturità storico-politica di chi l’aveva suggerito (il presidente della Federazione, Codarin) e proposto (il presidente dell’ANVGD, Toth), risultati essi stessi assenti alla cerimonia, e degli assai poco significativi, ancorché dagli stessi magnificati, sondaggi (500 intervistati) esperiti al riguardo a Trieste e che, comunque, poco hanno riguardato la nostra gente. Che il compromesso non potesse funzionare era, peraltro, facilmente prevedibile: troppo disomogenei, per entità e circostanze d’accadimento, i fatti messi a confronto; improponibile il considerarli come momenti disgiunti di tragedie diverse vissute da italiani e sloveni nel secolo scorso; impossibile non legarli al processo di causa-effetto, per noi inaccettabile, che sta alla base di quella tesi giustificazionista da cui gli stessi storici che in precedenza l’avevano sostenuta stanno ora prendendo le distanze; improbabile che i due momenti d’omaggio, specie quello al Monumento, riuscissero a coinvolgere i triestini.

A prescindere da quello che sarebbe potuto essere il coinvolgimento degli sloveni di Trieste, infatti, avrebbe dovuto essere a tutti noto che la Città ha vissuto l’esodo in maniera indiretta, e non sempre del tutto benevola, solo in termini d’accoglienza. Altrettanto noto avrebbe dovuto essere che i triestini hanno subito direttamente, invece, i quaranta giorni d’occupazione titina e che, pertanto, la loro memoria è legata alla scomparsa di tanti concittadini e, quindi, alle foibe. Solo un omaggio alla Foiba di Basovizza avrebbe, pertanto, potuto avere una pregnante valenza simbolica e vedere uniti triestini ed esuli. Peraltro, anche così una maggiore partecipazione sarebbe stata tutta da verificare perché Trieste è effettivamente stanca di queste vetuste diatribe che continuano ad essere motivo di scontro più che di confronto. I suoi cittadini, di qualsiasi etnia, sono più pressati dalle esigenze del presente che non dalle memorie del passato; la sua stessa componente italiana, esule e residente, è disillusa e disincantata per le troppe dimenticanze ed angherie di cui è stata oggetto da parte dell’Italia e guarda ormai con scetticismo a tutto quanto sa di patriottico. Come non capirli? Chi ha potuto seguire “in diretta”, come il sottoscritto, lo svolgersi dell’intera vicenda, incluse le manifestazioni collaterali organizzate dai dalmati per ricordare i morti “ammazzati”, esclusivamente italiani, di novanta anni fa a Spalato e Trieste, si è certamente reso conto che la Città è rimasta distante, pressoché assente ad eccezione della serata del 13 luglio in Piazza dell’Unità d’Italia dove, peraltro, non ha brillato per particolare calore. Mentono, pertanto, spudoratamente coloro che parlano di successo politico della pur lodevolissima iniziativa del Maestro Muti. Il “Concerto dell’Amicizia” è stato senz’altro un evento mediatico di rilievo che ha acceso su Trieste, con riflessi non tutti positivi, i riflettori dell’opinione internazionale ed un indubbio evento mondano di elevato spessore artistico.

È stato, di contro, poco più che un abortito tentativo di riconciliazione, non essendo riuscito a far superare le divisioni del passato ed anzi avendo evidenziato, in maniera nettissima, quanto diversi siano i presupposti e le disponibilità, specie da parte slovena, per un effettivo riavvicinamento. Se un aspetto positivo si vuol proprio cogliere, questo risiede solo nel fatto che l’omaggio congiunto dei tre Presidenti al Monumento di Piazza Libertà ha, per la prima volta, spostato politicamente l’attenzione dalle foibe al più complesso problema dell’esodo ed alle sue conseguenze ancora di sostanziale immutata attualità. Era un’esigenza avvertita da tempo. È stata, soprattutto, a causa dell’atteggiamento compromissorio di qualcuno, della rigidità di altri e dell’incapacità / non volontà di dialogo e coordinamento, un’occasione mancata da parte degli esuli per dimostrare, una volta tanto in maniera compatta, il proprio anelito a vedere compiutamente e definitivamente riconosciuti i propri patimenti ed i propri sacrifici.

Sarebbe veramente il caso che tutti coloro che si sono assunti l’impegno di rappresentare gli esuli riflettessero al riguardo mettendo da parte pregiudizi e presunzioni. Probabilmente, non tutti concorderanno con quanto precede. Qualcuno, inevitabilmente, vedrà il bicchiere mezzo pieno; altri, mezzo vuoto. Personalmente, e con una buona dose di buona volontà, lo vedo semplicemente non più desolatamente vuoto come per troppo tempo lo è stato. Per questo, condividendo, anche se per ragioni diametralmente opposte, quanto detto al riguardo dall’illustre letterato sloveno Boris Pahor, non si può che concludere affermando che quanto è stato fatto è ancora e sempre troppo poco.

Silvio Mazzaroli

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