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Sul Carso, in cerca di vite perdute (Il Piccolo 11 set)

di STEFANO LORENZETTO

L’hanno chiamato «il Golgota del fante». Antonio Scrimali era un bambino quando vi salì la prima volta, tenuto per mano dal padre Ernesto. «La Grande guerra era finita già da vent’anni eppure mio papà di notte si svegliava ancora di soprassalto, sentivo le urla provenire dalla camera da letto accanto alla mia, “chi va là? chi va là? dài! dài! all’assalto!”, e la mamma che cercava di calmarlo, “buono, buono, non è niente, Ernesto, è solo un incubo”. Aveva un bel dire, povera donna, ma come fai a dimenticarti un corpo a corpo all’arma bianca, a rimuovere dalla memoria l’ordine di affondare la baionetta nel ventre del nemico, il colpo più facile a darsi?»

Da allora, Antonio Scrimali non è più riuscito a smettere. Il Carso è diventato la sua ossessione. Lo ha battuto metro per metro, roccia per roccia, dolina per dolina, grotta per grotta, circa 90 chilometri in lunghezza, dai 10 ai 18 in larghezza, «e a ogni passo mi sembrava di sentir risuonare la disperata invocazione d’aiuto dei 600.000 morti del ’15-’18, ben oltre la metà dei quali sacrificatisi sull’altopiano fra Italia e Slovenia: “Ma quando? Quando vi ricorderete di noi?”».

Anche oggi, che ha 84 anni e le gambe malferme, non può staccarsi da quel paesaggio «brullo, spietatamente pietroso, espressione naturale della desolazione che arreca all’animo una penosa malinconia, direi quasi un senso pauroso della vita terrestre che si arresta sotto i piedi degli uomini», come scrisse nel suo diario il tenente Achille Contino, ufficiale della brigata Pisa. «La sera non lo vedo rincasare e sto col cuore in gola», racconta Luciana Laurenti, sua moglie da 54 anni. «In passato a volte si tratteneva per tutta la notte e quando tornava da quell’enorme cimitero mi diceva: “Non mi lasciavano venir via…”» Ma il più delle volte lei era al suo fianco, «è stata la mia sherpa, ha portato molti zaini e ha versato molte lacrime», ne tesse le lodi Scrimali.

Ogni 4 novembre torna lassù per l’anniversario della Vittoria, parola che in tre ore di dialogo mai una volta gli esce dalle labbra, perché le guerre non si vincono mai, si perdono sempre, insieme con le vite: «Lascio ai politici le orazioni ufficiali. Io sto con i morti. Vado con la bandiera italiana a quota 118, sopra il monte Sei Busi. È il massimo che i miei arti acciaccati possono concedermi. Ma col cuore sono sul Vodice, dove due battaglioni alpini, il Moncenisio e il Val Varaita, furono inghiottiti nel nulla, non ci resta più niente di loro neppure negli archivi, dissolti, come se quegli uomini non fossero mai esistiti».

Da oltre 60 anni, con metodo scientifico, Scrimali batte il Carso palmo a palmo in cerca di queste vite perdute. Ha inventariato oltre 1.700 fra lapidi e cippi, spesso semplici graffiti incisi con la punta della baionetta o con un ferro arrugginito sulle rocce, nelle trincee, nei ricoveri, testimonianze indelebili prima di affrontare la morte. Li scolpirono i soldati delle 200 brigate italiane, soprattutto della fanteria, ma anche degli alpini, dei bersaglieri e del genio zappatori e minatori, «talpe umane, li avevano definiti, perché bisogna sotterrarsi per sopravvivere». La stessa cosa fecero i loro nemici arruolati dagli Asburgo.

Di libri sulle iscrizioni Scrimali ne ha pubblicati sette, sei dei quali in collaborazione col figlio Furio. Il suo mondo si misura in quote. «Quota 77, sopra Monfalcone. Teatro di scontri all’arma bianca, al termine dei quali il comandante scrive: “Non posso descrivere le perdite”, non sapeva neppure quanti uomini erano morti, talmente erano tanti. Quota 118, Carso isontino. Era detta “terra di nessuno”. Conquistata, persa, conquistata, persa, ogni volta un’ecatombe. Quota 65, sopra cave di Selz. Fu tenuta dalla fanteria per due anni. In una nicchia si legge: “Di qua non si passa”. Poco distante, tre nomi: “Loppi A. 1886, Meneghello M. 1895, Molinari G. 1895”. Tre fanti del 17° reggimento brigata Acqui, gli ultimi due poco più che ventenni. I loro nomi non figurano fra i caduti al sacrario di Redipuglia. Magari si fossero salvati… Purtroppo la data incisa nel masso in numeri romani, 17 aprile 1916, documenta che era l’antivigilia di un assalto alle linee nemiche finito con una strage. E tutto questo perché? Per progredire sul terreno di 15 metri. Quindici metri, capisce? Ogni volta che ci vado, sto male per tre giorni. Gli ufficiali impartivano ordini di totale insensatezza».

Fino al momento d’andare in pensione, Scrimali ha lavorato nel laboratorio chimico della Camera di commercio triestina, «un’eredità asburgica, avevo il compito di controllare gli alimenti, il caffè soprattutto». Sul Carso c’è sempre andato nel tempo libero, sacrificando anche le ferie. Ora a portare avanti la sua opera di catalogazione dei graffiti contribuisce il Gruppo ricerche e studi della Grande guerra, da lui stesso fondato all’interno della Società alpina delle Giulie, sezione del Cai di Trieste, la città dov’è nato e dove vive.

Lei ha combattuto nella seconda guerra mondiale?

«Undici mesi. Per metà credendo alle lusinghe dei partigiani sloveni, per l’altra metà con la guardia civica agli ordini del podestà, poi con Giustizia e libertà. Alla fine ero ricercato da tutti. Mi salvò il sanatorio: due anni a Sondalo».

E al ritorno ha cominciato a scavare sul Carso.

«Sì, attraversavo il posto di blocco alleato ed entravo in territorio sloveno. Per i titini era inconcepibile che un uomo andasse a cercare le memorie di altri uomini insepolti da trent’anni. Mi sottoponevano a umilianti perquisizioni corporali. Ho trovato pezzi di baionetta, calci di fucile, rasoi, forbici, gavette, tabacchiere e ossa, tante ossa, sparse nelle fosse comuni. In guerra non c’era il tempo per seppellire le salme. Ai comandanti toccava il compito più ripugnante: sparare il colpo di grazia ai feriti che rantolavano con le viscere di fuori o le gambe dilaniate. Il giorno dopo chi non rispondeva all’appello era considerato disperso, a meno che un altro soldato non testimoniasse d’averlo visto morire. Ho dato sepoltura a bracciate di teschi, tibie, femori. Io e la mia morosa, quella che poi sarebbe diventata mia moglie, ci vergognavamo a scambiarci le prime effusioni sul monte San Michele, ci sentivamo addosso gli occhi delle migliaia di defunti».

Perché decise di avviare queste ricerche?

«I professori insegnano la storia. Io ci sono entrato. Se non conosci il campo di battaglia, non puoi capire vittorie e sconfitte. Mi ha guidato la pietas. Il Comune campano di Cava de’ Tirreni è riuscito col mio aiuto a compilare l’albo d’oro di tutti i suoi cittadini immolatisi nel Nordest. Per anni ho indicato a madri e padri il luogo esatto dov’erano caduti i loro figli. Oggi indico a figli e nipoti il luogo esatto dove sono caduti i loro padri e nonni. Talvolta mi basta una data, il nome del reparto, un graffito. Ne ho riportati alla luce di commoventi. “Negli anni più belli i giorni più tristi”, a Casera Pramosio, Alpi carniche. “Ivi s’acqueta l’alma sbigottita”, un versetto del Petrarca inciso sopra una caverna a quota 265, testimonianza del senso di sicurezza che i fanti provavano rifugiandosi in quella spelonca sulle alture del Nad Logem, insanguinate da spaventose carneficine durante l’ottava e la nona battaglia dell’Isonzo».

Ha fatto tutto da solo?

«All’inizio sì. Poi con l’aiuto di tanti giovani volontari ho sistemato trincee, tolto la vegetazione dalle lapidi, riaperto le caverne, ripulito e reso sicuri i sentieri, ritrovato luoghi della memoria come il “valloncello dell’albero isolato” della poesia San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti, che lì combatté nell’agosto del ’16». Oggi trovo migliaia di escursionisti che vagano fra le doline senza sapere nemmeno loro il motivo. Perché siete venuti qui?, domando. “Dovevamo”, mi rispondono. Spesso accompagno le scolaresche. Alla fine le maestre chiedono quanto mi devono per il disturbo. Non voglio niente, neppure un euro: mandatemi solo i temi svolti in classe dai vostri alunni».

Secondo lei perché quei soldati sentirono il bisogno di incidere parole nella pietra?

«Per non essere dimenticati. Noi italiani dimentichiamo facilmente, a cominciare dal fatto che abbiamo contratto un debito enorme con un’intera generazione mandata al macello, sacrificatasi per obbedire a ordini inconcepibili, spesso per conquistare 30 metri in più di reticolato».

Ha avuto parenti morti nella Grande guerra?

«Due zii, fratelli di mia madre, che essendo triestini dovettero arruolarsi con l’Austria e finirono dispersi in Galizia. La seconda guerra mondiale non fu meno luttuosa. Un mio cugino, Livio Visintin, perì con tutto l’equipaggio del sommergibile Scirè, che fu mandato a picco dagli inglesi nelle acque di Haifa dopo che, al comando del principe Junio Valerio Borghese, aveva affondato tre navi di sua maestà britannica nella rada di Gibilterra e messo fuori combattimento le corazzate Queen Elizabeth e Valiant nel porto di Alessandria d’Egitto. I partigiani di Tito fecero irruzione nella casa di mia zia Carlotta, portandole via la medaglia d’oro al valor militare concessa alla memoria del figlio. Lei impazzì per il dolore. Morì in manicomio a Venezia. Un altro mio zio, Michele Mengaziol, che abitava a Parenzo, venne infoibato. Era alto 1,90. Siccome durante la cattura aveva tirato un pugno a un comunista slavo, i titini prima di gettarlo ancora vivo nella foiba gli tagliarono le gambe con una sega da falegname».

Vi sono guerre giuste?

«No, gli uomini sono troppo cattivi. Mio padre mi diceva: “Quando torni, se torni, da un assalto all’arma bianca nella trincea avversaria, tu sei un uomo tarato per sempre”. Lui era tornato. Ma, anche da vecchio, ricordava ancora la distribuzione delle boccette di cognac e di rum, segno che l’attacco era imminente, e l’odio negli occhi dei soldati quando il comandante dava l’ordine di uscire. Chi si rifiutava di farlo, veniva passato per le armi all’istante. Tutti speravano nella cosiddetta ferita intelligente, il colpo di mitraglia o di fucile a una gamba, unica speranza di sopravvivenza prima delle baionettate reciproche nella pancia».

© 2010 Marsilio Editore

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