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Squarci di vita rovignese alla fine dell’800 (Voce del Popolo 28 ago)

Siamo intorno agli anni 1890-1900. Rovigno, la nostra graziosa cittadina istriana, vive con la Manifattura Tabacchi, con la coltivazione dei campi e, soprattutto, con la pesca.

Sulle rive, nelle piccole baie, sui moli, sono ormeggiate le barche da pesca. E mentre le battane appartengono generalmente a un capo famiglia e servono prevalentemente per “usi domestici”, nel senso che sono destinate all’esercizio della pesca a beneficio della propria famiglia, le barche più grandi, cabinate, a motore e a vela – chiamate battelli – sono di proprietà invece di gruppi di pescatori (amici, familiari, soci vari) che in semplicità di organizzazione e con equità di ripartizione delle fatiche, trascorrono lunghe ore – e forse più realisticamente, si potrebbe dire gran parte della loro vita – sul mare per provvedere al sostentamento dei loro congiunti, sia portando ogni giorno a casa una piccola razione di prodotto fresco del mare, sia vendendo la parte residua del pescato, in genere sempre di quantità modesta, al mercato e far fronte così al bisogno di disporre di un piccolo reddito monetario e sopperire alle minime necessità contingenti.

A quel tempo, infatti, non esistevano i radar e i sonar elettronici per individuare gli spostamenti dei branchi di pesci ed effettuare, così, grosse pescate. Tutto era affidato alle leggi della natura, interpretate con prudenziale sapienza, in base ad esperienze di vita, di capacità d’intuito. Luna, marea, stagione, temperatura, erano di solito i parametri più comuni che suggerivano l’orientamento da tenere sul dove, come e quando calare le reti. Si usavano solo lampade a petrolio poste sulla prua della barca, che aveva arnesi da pesca assai rudimentali. Inoltre le tecniche di movimentazione dei vari attrezzi erano esclusivamente manuali e quindi particolarmente faticose. Di conseguenza, il più delle volte, il pescato era modesto, lo sforzo immane e i sacrifici della famiglia non indifferenti. Non mancavano, però, l’entusiasmo in tutti e le forti motivazioni nelle quali si credeva fermamente. Ma il trascorrere del tempo – anche non lungo – logorava spesso irreparabilmente il fisico, producendo stanchezze precoci in età anche non avanzate e segni di invecchiamento sul volto.

Le barche più grandi si avvalevano assai spesso, per i lavori “pesanti” e più umili, di un mozzo, di un ragazzo, sovente neppure ventenne, ma di costituzione fisica robusta, che i genitori affidavano al capobarca e che questi considerava come un figlio. Non si guardava tanto per il sottile. A quel tempo tutti lavoravano duramente per tirare avanti alla meno peggio ed il ragazzo volonteroso e capace era una sorta di “toccasana” per la famiglia, perché riusciva a contribuire al sostegno dei genitori (anch’essi pescatori o contadini) e dei fratelli più piccoli ed eventualmente di qualche nonno che conviveva con loro.

L’attività sulle barche cominciava prima dell’alba. E il ragazzo era incaricato di controllare che le reti fossero in ordine e ben rattoppate, che i vari arnesi di bordo stessero al loro posto, ecc. ma, soprattutto, aveva il compito di “svegliare” per tempo i vari componenti della propria barca, presso le rispettive case. Ecco, quindi, che il giovane era costretto ad alzarsi presto di mattina e andare ai domicili dei compagni “anziani” di barca ed avvertirli che era giunta l’ora di “buttarsi” giù dal letto. All’epoca non esistevano sveglie automatiche (o, se esistevano, non erano alla portata della gente comune…) e le stradine di notte della nostra Rovigno erano oscure, talora molto oscure, proprio tenebrose, specialmente durante l’autunno e l’inverno, quando pure si doveva “uscire” in mare.

Per orientarsi nel dedalo di calli e “calisele” il ragazzo doveva tenere la testa rivolta verso l’alto e seguire con lo sguardo i contorni dei tetti delle case che si stagliavano contro il cielo leggermente velato di pallido chiarore. Giunto presso la casa di un compagno (spesso “barba”, cioè zio) gridava a squarciagola il suo nome: “Marco”… “Marco”…, finché non perveniva dall’interno dell’abitazione qualche voce di conferma del “messaggio” ricevuto. Dopodiché il mozzo proseguiva la sua “missione” di sveglia e passava alla casa di altro pescatore “anziano” e ripeteva, con tutta la forza che aveva addosso, il rituale della chiamata al lavoro, per scuoterlo, pure lui, dal sonno e dal torpore della notte. E così, via via, salendo o discendendo per le stradine, talune assai impervie, ma, a ben osservare, permeate da vivo calore domestico perché piene di abitazioni con belle ed assortite famigliole, sempre a testa alta, per non perdere l’orientamento, finché non avesse esaurito il suo compito.

Indi correva sulla riva o sul molo dove era ormeggiata la sua barca e ci “saltava” dentro. Ed intanto cominciavano a giungere i vari pescatori ed iniziavano i preparativi per levare gli ormeggi ed avviare il “batel” in alto mare. D’inverno il freddo attanagliava non poco questi giovani uomini, forti nel fisico ma anche nello spirito di sacrificio, accomunati nella ferrea volontà di vivere e far vivere i propri cari e le abbondanti figliolanze. Nel cuore c’era sempre la speranza di poter ritornare a terra con le reti sufficientemente piene, sì da soddisfare i compagni di barca, le famiglie e raccogliere qualche frammento di corona (a quel tempo la moneta corrente austriaca) per la semplice vita quotidiana. Questa, infatti, non era certamente di tenore elevato. Non esistevano le Casse di Previdenza, le Mutue Malattie o le Assicurazioni Sociali del giorno d’oggi. Tutto era ridotto ai minimi termini. E quanto era guadagnato dai membri di una famiglia era appena sufficiente per sopravvivere. Quante volte, infatti, specie tra i bambini che erano generalmente numerosi nelle case rovignesi, si contavano a tavola, i pesciolini che erano messi dalla mamma nei loro piatti… per verificare che l’altro non ne avesse uno in più e che la porzione ricevuta fosse equa! I pesci che si utilizzavano in casa erano in genere poveri in quanto quelli pregiati venivano destinati al mercato.

Il mozzo inoltre era incaricato di preparare il mangiare, che consisteva quasi sempre in brodetto con la polenta, fatta alla “pescatora”, con ingredienti forti e gustosi e senza risparmiare pepe, aceto e sale. Naturalmente erano adoperati tutti i tipi di pesce o molluschi (seppie, soprattutto) disponibili sul momento. Non si buttava di certo via neanche un pesce minuto. E il brodetto era ideale, appunto, per utilizzare qualsiasi tipo di pescato, anche di scarto. Il pane era adeguato e talvolta si beveva anche un buon bicchiere di vino, proveniente dai vigneti dei dintorni di Rovigno e generalmente di produzione casereccia.

Il lavoro di barca era stressante, continuo, con poche soste e quando si rientrava a terra ognuno portava a casa la piccola, magra razione a lui affidata per la sua famiglia. Ove il tempo fosse stato inclemente o per qualche raro impedimento di altro genere, la barca restava all’ormeggio e la donna di casa doveva, con un po’ di fantasia, orientarsi per il desco su cibi diversi e provenienti generalmente dalla campagna. Si dormiva, se così si può dire, accovacciati per terra nei ridottissimi angoli dell’imbarcazione, nei brevi lassi di tempo consentiti dalla stancante attività. Spesso i flutti entravano in barca e, senza “riguardo”, investivano i pescatori, colpendoli brutalmente nel corpo e, perfino, nelle orecchie. Da qui, frequenti le artriti, causa l’umidità, e i disturbi all’udito; in più, le ernie e le sciatalgie per gli sforzi compiuti.

Tutto questo lavoro intenso, continuato, spesso al limite della sopportazione fisica, avveniva con spirito di grande religiosità. Le mamme, i papà e i nonni e quelli che ogni giorno lavoravano assiduamente, usavano andare a messa tutte le mattine, con un impegno di costanza e di fede incredibile! Tanto è vero che i figli e i nipoti erano pur essi amorevolmente “trascinati” sulla via di questa abitudine devozionale, che aveva radici profonde nel cuore e che percepiva fortemente il dovere di ringraziare tutti i giorni il Signore.

Questa, dunque, era la vita – per linee molto ampie – dei pescatori di Rovigno sul finire dell’800. Vita semplice, molto operosa, fino a votarsi verso sacrifici non comuni, e improntata a impegno morale e religioso.

Tullio Parenzan
(tratto da “La Voce della Famia Ruvignisa”)

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