di Krstjan Knez
Tra l'Istria, la Dalmazia, la città di Venezia e i suoi domini di Terraferma – lo ricordiamo qualora fosse ancora necessario evidenziarlo -, intercorsero rapporti di varia natura, intrecci che lasciarono una traccia indelebile, non solo nella documentazione, ma pure – potremmo dire soprattutto – nelle testimonianze artistiche e monumentali in generale.
Tali legami, che furono particolarmente intensi durante la lunga età della Serenissima, in realtà affondavano le radici nella notte dei tempi, infatti, risalivano alla protostoria, s'intensificarono sotto Roma, e, dopo una parentesi nel corso del Medioevo, ripresero dopo le sconfitte subite dai pirati per opera dei Veneziani.
Con il venir meno di quell'endemico problema il mare Adriatico divenne un vettore di straordinaria importanza attraverso il quale transitavano le merci, le persone, la cultura, l'arte e le idee, mentre nella sua parte settentrionale si formò a tutti gli effetti un'area che potremmo definire "intima".
Tra le sponde dirimpettaie la navigazione quotidiana metteva in contatto le comunità dando luogo ad un'osmosi, che rammentiamo anche in questa sede perché essa è fondamentale per cogliere il passato e comprendere la specificità delle nostre regioni e al tempo stesso quella civiltà adriatica, forgiata dalla Dominante (ma vi erano molti elementi in comune ben prima del suo arrivo.
Lo evidenziamo per accantonare ogni sospetto circa la presunta "colonizzazione" di terre, che per una certa storiografia – ancora oggi – sarebbero state snaturate), e che si manifestava dalle lagune sino alle Bocche di Cattaro, naturalmente con peculiarità e aspetti intrinsecamente legati al contesto locale.
In quella trama di rapporti un ruolo non indifferente fu quello dell'istruzione, riservata, naturalmente, alle famiglie abbienti, le sole in grado di indirizzare i propri figli verso un percorso di studio. Per centinaia d'anni i giovani delle contrade istriane e dalmate si formavano in Italia. Padova con la celeberrima università attirò un numero non indifferente di studenti originari dalle province adriatiche della Repubblica di San Marco e non solo. Citiamo la città del Santo perché recentemente è uscito un volume in cui si ricordano proprio queste presenze, nella fattispecie quelle dei Ragusei. L'ateneo succitato ospitò innumerevoli giovani provenienti dalla Repubblica di San Biagio. L'opera in questione è "L'eredità di Ragusa. Il restauro conservativo delle lapidi di tre studenti ragusei nel chiostro del capitolo della basilica di S. Antonio di Padova", edizione curata da Nicolò Gallinaro, studio che costituisce il XXXV volume degli "Atti e Memorie della Società Dalmata di Storia Patria" (Venezia 2009, pp. 78), in cui, attraverso la presentazione e la documentazione di un intervento di recupero delle opere – voluto e sostenuto dallo stesso sodalizio – si propone un tassello di storia adriatica in cui emerge palesemente i vincoli tra le terre bagnate da un mare comune che univa.
Nella basilica e nei chiostri del complesso Antoniano di Padova si conservano mausolei ed epitaffi funebri. Si tratta di un sito in cui le testimonianze del passato sono concentrate in gran numero e, cosa particolarmente interessante, non poche rimandano alle terre dell'Adriatico orientale, evidenziando eloquentemente le secolari relazioni tra le due coste.
Come scrive Leopoldo Saracini, presidente referato della Veneranda Arca di Sant'Antonio "Collocare la perpetuazione della propria memoria, quella di persone care o di illustri personaggi legati alla storia civile ed ecclesiastica, in un contesto speciale qual è il Santo, destinato a superare il tempo, essendo proiettato in una dimensione di immortalità, questo era – e rimase per molti secoli – il motivo che ha prodotto nel tempo una concentrazione di memorie e ricordi eccellenti – spesso di alto livello artistico – che ha pochi altri riscontri al mondo" (p. 8).
Per tale ragione le varie "nazioni" (termine che all'epoca non aveva il significato odierno) presenti a Padova facevano una sorta di gara per ottenere degli spazi nonché dei privilegi da conservare e trasmettere a beneficio dei propri esponenti. Si tratta di una ricchezza di notevole valenza, sono tessere utili alla comprensione del passato delle nostre latitudini e perciò è quanto mai utile e necessario provvedere alla conservazione di siffatte testimonianze. Come avverte il già citato Saracini il compito non è affatto semplice; "La vastità di questo patrimonio di memorie storiche e di opere plastiche trasmessoci dai secoli passati richiede oggi un continuo e sistematico intervento conservativo che presuppone mezzi economici non indifferenti. Scomparse le discendenze delle antiche casate gentilizie alle quali appartennero i defunti, dissoltesi nel tempo le forme istituzionali che avevano provveduto in passato a conservarne e a restaurarne i monumenti commemorativi, oggi resta solo la sensibilità e l'impegno civile e culturale di quanti pensano a ragione che tali memorie sono un patrimonio straordinario da non perdere e da tramandare" (pp. 8-9).
Nicolò Gallinaro propone in apertura un excursus storico sulla Repubblica dalmata poi parla della situazione del XVI secolo, con un sintetico testo sulla temperie culturale, per inquadrare l'ambiente dal quale provenivano i tre personaggi, di cui nel prosieguo si sofferma, e che giova a comprendere il contesto in cui si muovevano.
Il Cinquecento rappresentò un periodo importante per Ragusa: intensi furono gli scambi commerciali, vivaci i rapporti via mare, fervidi i rapporti culturali, dinamici quelli diplomatici, tant'è che le sue rappresentanze erano presenti in buona parte d'Europa, soprattutto nell'area mediterranea e nelle province ottomane dei Balcani. La città dalmata espresse una civiltà che tutt'oggi desta interesse ed il suo ruolo svolto era di gran lunga superiore alle sue limitate dimensioni. La cultura, lo ribadiamo, trovava un posto di rilievo e proprio colà – si ricorda anche nello studio che recensiamo – fiorì e poté svilupparsi una letteratura che utilizzava tre idiomi: il latino, l'italiano (il toscano) e l'illirico (cioè il serbo-croato). Ragusa rappresenta a tutti gli effetti una singolarità e, benché le sue istituzioni, magistrature e organi di governo utilizzassero il latino e dalla seconda metà del XV secolo la lingua toscana, in quel contesto riscontriamo l'essere e la presenza delle varie anime, che operavano in un clima di stretta collaborazione in cui la diversità linguistica non rappresentava una discriminante, anzi, dato che il bilinguismo era molto diffuso quest'ultimo rappresentava una sorta di punto di forza.
Tale realtà, per ovvie ragioni, si tende a celare in quanto è poco confacente a quella presentazione della storia in chiave nazionale per cui quel passato è "croato" o "italiano", quasi il concetto di appartenenza nazionale si potesse estendere anche a una realtà di antico regime come la Repubblica di Ragusa per l'appunto.
Tra i massimi esponenti di quel secolo ricordiamo due umanisti ecclesiastici come Ambrogio e Clemente Ragnina, il letterato Giacomo Bona che studiò a Padova, a Bologna e a Firenze, il letterato Damiano Bonessa, Ludovico Cerva Tuberone, autore dei commenti sugli accadimenti avvenuti a seguito della morte del re ungherese Mattia Corvino, Mauro Orbini, il primo autore impegnato in ricerche storiche, la cui lavoro "Il Regno degli Slavi" (Pesaro 1601) fu una tra le primissime opere dedicate agli Slavi meridionali. Tra i poeti menzioniamo Michele Monaldi e Savino Bobali.
L'ateneo patavino divenne un centro di primaria importanza per la formazione dei giovani provenienti da quella Repubblica e dalla Dalmazia in generale. L'autore dello studio che presentiamo sottolinea "Che i dalmati siano in questi secoli una presenza attiva nella storia universitaria, lo si nota non solo dagli Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini pubblicati nei diversi secoli, ma anche dal fatto che, per esempio, tra i rettori sia nominato qualche raguseo come Francesco Crasso, poi addirittura sindaco di Padova per due volte, oppure che il più antico dei 3042 stemmi oggi esistenti al Bo' appartenga ad un dalmata, Giacomo Cicuta da Veglia, rettore dei Giuristi nel 1541-42" (p. 14).
L'intervento di restauro ha interessato i monumenti funebri ad Antonio Bona (1537-1558), latinista, a Giorgio Sorgo (1584-1609) che molto probabilmente studiava in quell'università ma non vi era iscritto, dato che il suo nome non compare nei registri, e a Stefano Gigante (1592-1613) di cui non si hanno notizie, nemmeno relative alla sua famiglia.
Come si evince i tre monumenti sono dedicati a tre giovani passati a miglior vita ancora molto giovani, il più anziano, infatti, è venuto a mancare all'età di venticinque anni. Buona parte della pubblicazione è dedicata al restauro dei monumenti funebri stessi, il cui autore ha preso direttamente parte. Una ricca documentazione fotografica presenta lo stato in cui essi versavano prima dell'inizio dei lavori, si propongono le varie fasi dell'intervento, con le delicate operazioni di recupero nonché lo stato attuale delle opere, finalmente ritornate al loro antico splendore, così come dovevano apparire secoli addietro.
Il restauro conservativo fu eseguito nel corso del 2008. Per individuare le metodologie più appropriate per eseguire l'intervento medesimo dei vari elementi architettonici e del materiale lapideo che forma le epigrafi, si fece anzitutto un'analisi degli elementi che raggruppano delle analogie vuoi per tipologia e stato di conservazione vuoi per patologie di degrado e ubicazione. Gli elementi individuati furono suddivisi in: elementi in pietra tenera di Vicenza (Nanto), elementi in pietra tenera di Vicenza (Costozza) e elementi marmorei. I primi, come apprendiamo dallo studio, presentavano delle patologie di degrado sulla superficie dei manufatti "(…) riconducibili a evidenti fenomeni superficiali diffusi di colore nero con formazioni di microrganismi quali licheni e muschi e alla presenza di croste nere dentitriche dovute probabilmente all'aggressione dei fenomeni atmosferici e in parte all'inquinamento atmosferico" (p. 32).
La porosità della pietra, inoltre, ha permesso l'erosione e la disgregazione del litotipo, che ha determinato pure la perdita di materiale compromettendo l'integrità del manufatto. Per quanto concerne il secondo gruppo di elementi riportiamo che "Le principali patologie di degrado sono riconducibili all'aggressione dei fenomeni atmosferici e fenomeni di polverizzazione materica superficiale. Sono presenti anche croste nere dentritiche e fenomeni di attacco biologico" (p. 36). Per le parti in marmo "Le principali patologie di degrado della superficie sono riconducibili all'aggressione dei fenomeni atmosferici e in parte all'inquinamento atmosferico. Vi sono depositi superficiali di vario spessore e consistenza di colore nero, formatesi a causa dell'alta concentrazione di agenti inquinanti, presenti soprattutto nelle zone meno esposte agli agenti atmosferici" (p. 40). Delle schede dettagliate propongono anche la metodologia d'intervento, che dimostra la professionalità degli esecutori e al tempo stesso presentano al pubblico profano la complessità che un recupero di quel tipo comporta. Le foto inserite l'una accanto all'altra, che documentano lo stato dei monumenti e delle loro singole parti, prima e dopo il restauro, sono eloquenti; ed i risultati ottenuti suggeriscono siano il frutto di notevole esperienza, competenza e laboriosità.