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“La dura scuola dell’esodo”. Intervista ad Anna Maria Mori – 18ott13

Sul numero di Novembre di “Difesa Adriatica” è pubblicata un’intervista alla scrittrice e giornalista polesana Anna Maria Mori, autrice di diversi libri dedicati alla sua Istria: Bora, scritto con Nelida Milani (Frassinelli,1998, due edizioni), Nata in Istria (Rizzoli, 2006), dal quale nel 2009, su iniziativa dell’Anvgd nazionale, è stato tratto un adattamento per le scene, allestito a Roma nel Teatro San Marco del Quartiere Giuliano-Dalmata con la partecipazione di Leo Gullotta.

 

Del 2012 è L’anima altrove (Rizzoli), «il mio libro più sofferto – come ha dichiarato in un’ intervista a “Famiglia Cristiana” – […] che nasce dall’idea della centralità della casa, del luogo dove ciascuno apre gli occhi sul mondo, sugli oggetti che sopravvivono alle persone e testimoniano storie».

 

Nel 2009 è stata insignita dall’Anvgd del Premio Giorno del Ricordo per l’«ulteriore ed originale materia di apprendimento e di riflessione sui temi dell’esodo e della memoria, vissuti in prima persona in quanto esule giovanissima da Pola, avendo tuttavia tradotto il ricordo della sofferenza e il sentimento dell’ingiustizia subìta in strumenti di confronto e di conoscenza condivisibili».

 

            Questo il testo del colloquio con la scrittrice esule da Pola.

 

Nel 1993 Lei ha realizzato per la Rai un documentario in due puntate, Istria 1943-1993: cinquant’anni di solitudine, ed un altro nel 1997, Istria, il diritto alla memoria. Come vennero recepiti allora negli ambienti giornalistici e dalla pubblica opinione?

 

L’inchiesta del 1993 fu mandata in onda senza preparazione-promozione da parte della Rai, la mandarono in onda in due serate successive (troppo!) ed ebbe un ascolto non altissimo: la videro tutto sommato in pochi. «Istria, il diritto alla memoria» del 1997 invece andò molto meglio: ascolti alti, grande interesse da parte del pubblico e anche della stampa, nessuna reazione negativa, anzi.

 

Vi era effettivamente, negli ambienti culturali e giornalistici, ancora sino agli anni Novanta, una sorta di «egemonia culturale» della sinistra particolarmente influente, tale da mantenere per decenni sotto una coltre di silenzio le vicende del confine orientale?

 

Io ho fatto un’enorme fatica per riuscire a convincere i dirigenti Rai a farmi fare quella prima inchiesta. E purtroppo devo anche dire che non avevo dalla mia non solo la sinistra, ma anche gli ambienti democristiani: ho avuto uguali resistenze dall’una e dall’altra parte. Lo dico sempre: devo tutto a un dirigente Rai repubblicano, Ennio Ceccarini, che purtroppo se n’è andato precocemente e che mi ha supportato in tutto e per tutto, aiutandomi a superare una serie di veti che venivano, appunto, da ambienti Pci e Dc.

Mi è capitato addirittura che mentre giravo con una troupe in Istria, arrivava di sorpresa sul set televisivo una donna, una specie di commissario politico di parte, democristiana, funzionaria di quella RaiUno che produceva il programma, la quale intendeva sorvegliare il mio lavoro, controllarlo e indirizzarlo. Io avevo deciso di chiamare in causa, come intervistati, quasi o soprattutto personaggi che a vario titolo rappresentavano la sinistra proprio perché il programma voleva che fossero loro, più che altri, a dichiarare gli errori fatti, le ingiustizie, le bugie a danno della nostra gente: in qualche modo a pentirsi pubblicamente.

La funzionaria che veniva a controllarmi spingeva, ma non in maniers chiara, direi piuttosto subdola, perché io intervistassi invece democristiani. Un giorno le ho scoperto le carte: eravamo al centro della hall di un albergo con tutta la troupe, lei è arrivata, e io l’ho apostrofata davanti a tutti proprio così: «Ecco il commissario politico che viene a controllarmi…ma io non ho bisogno di commissari politici, stia tranquilla che so fare bene da sola il mio lavoro, le regole so darmele da sola…». E da quel giorno, se Dio vuole, non si è più vista.

Ho dovuto combattere anche con la troupe: regista, macchinisti, operatori, quelli invece tutti di sinistra, convinti che io li conducessi a fare un’opera di abiura alla loro fede e alle loro convinzioni e quindi sofferenti e insofferenti nei confronti del lavoro che stavamo facendo. Piano piano, prendendoli per mano, costringendoli a confrontarsi passo dopo passo con la realtà delle cose, li ho, se così si può dire, “convertiti”: hanno capito come stavano veramente le cose, e sono stati felici di collaborare con me.

Solo il regista che ho sentito al telefono dopo qualche anno, mi ha detto che si era pentito di aver firmato insieme a me l’inchiesta perché aveva letto il libro di Boris Pahor ed era tornato alle sue convinzioni di partenza. Mi ha fatto molto male, ovviamente.

 

Da allora, a Suo parere, quanto è migliorata in Italia la percezione degli eventi       che colpirono la Venezia Giulia a metà Novecento?

 

È migliorata molto, moltissimo. Anche se questo nostro benedetto Paese, come mi diceva ultimamente Ilvo Diamanti, vive perennemente di divisioni, e come tale dobbiamo accettarlo. E così, a proposito dell’Istria e dei nostri drammi e tragedie, c’è, sì, un’opinione pubblica sicuramente più consapevole, ma restano, qua e là, gli arroccamenti sugli antichi pregiudizi, di destra e di sinistra.

 

A Suo avviso, le società croata e slovena sono mature per una riflessione equilibrata sulle violenze etniche perpetrate nel corso della seconda guerra mondiale per il possesso dei territori italiani e negli anni Novanta durante le guerre balcaniche?

 

        Qui la mia risposta è secca e dura: no. Purtroppo.

 

Si stempera mai nell’esule il senso della perdita?

 

        Si può elaborare un lutto, ma il lutto, in quanto tale, rimane, per sempre.

 

Il Suo più recente libro dedicato all’Istria e alla memoria dell’esodo,L’anima altrove (Rizzoli, 2012), è in buona parte costruito intorno agli oggetti perduti, alle cose smarrite, che assumono per l’esule che li rinomina un valore spirituale e memoriale. L’esodo raccontato da un’ottica inedita…

 

        Io ho sempre creduto nell’importanza degli oggetti, delle cose, delle case: fanno parte  persino del nostro corpo, oltre che della nostra memoria e della nostra anima. Gli oggetti sono destinati a sopravvivere alle persone: quando le persone non ci sono più, sono i loro oggetti che le raccontano.

 

Quale sentimento preminente Lei prova nel ricordare la Sua infanzia e il Suo esilio?

 

        Nella mia infanzia io ho imparato precocemente a conoscere l’odio ingiustificato degli esseri umani contro altri esseri umani assolutamente incolpevoli: quelli che ci bombardavano dall’alto, prima; i “liberatori” arrivati subito dopo che ugualmente minacciavano la nostra vita oltreché la nostra libertà.

Eppure, come sempre quando si ritorna con la memoria all’infanzia, nonostante le bombe, le distruzioni, la paura, ricordo giorni e momenti felici: il mio cane  nero e perennemente nervoso, il grande ciliegio fiorito davanti alla mia casa, i coniglietti grigi, gli enormi alberi di Natale con le candeline, il mare sempre a portata di mano, e una città che mi sembrava di poter possedere, tutta, perché era anche a misura e a portata di bambino. Poi è sparito tutto, e io ero ancora bambina. È arrivato il collegio, mia madre che era una donna perennemente allegra e ottimista, e che invece ha incominciato a piangere e non ha più smesso fino all’ultimo giorno della sua vita, sono arrivate ristrettezze economiche che prima non conoscevo. C’era, ed è rimasto a lungo, soprattutto il problema di capire il cosa, il come e il perché di quello che era successo a me, alla mia famiglia e ai tanti partiti insieme a noi: io non capivo e non ho capito per un lungo periodo della mia vita.

La mia, la nostra, non è stata un’infanzia facile. Chi sa, forse mi ha reso, ci ha reso, più forti, più capaci di combattere. Ma a quale prezzo.

 

Ritorna di frequente nella Sua città? Quali le impressioni?

 

        Non ritorno volentieri nella mia città. Ci sono tornata per fare i miei documentari, per scrivere i miei libri: diciamo pure, per dovere. Per il resto preferisco che rimanga intatta nella memoria così com’era nella mia infanzia. Tornarci mi fa male.

 

Quale ricordo Lei immagina fra 50 anni?

 

            È una domanda alla quale non so proprio dare nessuna risposta.

 

Patrizia C. Hansen su Difesa Adriatica   novembre 2013

 

 

 

La scrittrice nel 2010, in occasione dell’annuale festival di letteratura di Ostuni  (foto www.brindisireport.it)

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