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Porzûs, Raoul Pupo: “accadde ciò che successe non in Italia, ma in Jugoslavia” (Mess. Veneto 02 feb)

Esistono, nelle vicende storiche, degli snodi vissuti come stigmi, tratti connotativi da assumere o rifiutare, e destinati per questo a non trovare mai un’interpretazione concorde e priva di polemiche. È il caso anche della strage alle malghe di Porzûs, dove nel febbraio del ’45 venti partigiani osovani vennero trucidati da una formazione gappista al cui fianco combattevano. Una cellula minima della violenza che sconvolse l’Europa, un cespuglio arso nell’incendio della foresta, assurto però a epitome e segno di divisione.

 

L’ultimo libro sugli assassinati di Topli Uorch e di Bosco Romagno è Porzûs – Violenza e Resistenza sul confine orientale (162 pagine, 15 euro), filiazione di un convegno tenuto a Udine. Pubblicato da il Mulino, raccoglie una serie di saggi a cura di Tommaso Piffer, ricercatore all’Università di Milano e visiting scholar ad Harvard.

 

Porzûs è stato al centro di un infuocato dibattito politico – avverte Piffer – perché paradigmatico «per gli uni del tentativo di delegittimare la Resistenza proiettando sull’intero movimento partigiano un episodio ritenuto marginale, per gli altri della vera natura totalitaria e antidemocratica del Pci». Con le foibe, l’eccidio venne anche percepito da alcuni come il sanguinoso inveramento di quel “pericolo slavo” preconizzato dall’irredentismo.E la successiva scoperta di Gladio, passata per erede dell’“Osoppo”, non ha certo aiutato la ricomposizione.

 

Problematico dunque uscire dagli schemi oleografici e ideologicamente funzionali per approdare a una memoria condivisa. Ci hanno provato, umanamente, don Tonino Bello e il comandante garibaldino Vanni Padoan, testimoni delle atrocità e delle contraddizioni di quell’epoca, ma i loro generosi sforzi non hanno sortito risultati significativi.

 

Tracce di questa difficoltà si riscontrano anche nelle relazioni del libro (di Elena Aga-Rossi, Patrick Karlsen, Orietta Moscarda Oblak, Paolo Pezzino, Raoul Pupo, oltre che dello stesso Piffer). Dove, accanto a elementi comuni, emergono lumeggiature diverse sulle molteplici tensioni statuali, etniche e ideologiche che nel ’43-45 si scaricano sul confine orientale. E la maggiore o minore intensità attribuita ai diversi vettori genera poligoni delle forze difficilmente sovrapponibili. Il tentativo, più che di narrare una storia piú volte scritta, è quello di contestualizzarla, considerando i rapporti interni alla Resistenza italiana, la politica del Pci, e anche l’azione dei comunisti sloveni e della X Mas, come afferma la Aga-Rossi, che, confutando Giorgio Bocca, nega che Porzûs rappresenti «una faccenda italiana».

 

Del resto, Pupo nota acutamente come nella zona – in particolare quella giuliana – «accadde quel che successe non nel resto d’Italia, ma nel resto della Jugoslavia». Qui il tentativo del Pci di conquistare una posizione egemonica nell’unitarietà della Resistenza, anche sfruttando l’elemento nazionale, si cortocircuita con le aspirazioni titine. Qui all’equazione «non comunista = fascista», fatta circolare sottotraccia in tutta Italia, se ne affianca un’altra, generata da vent’anni di regime snazionalizzatore, ma anche fomentata ad arte: «italiano = fascista». Qui si verificano episodi di collaborazionismo estranei al resto d’Italia: il vescovo di Lubiana (già frettolosamente annessa) si schiera con i nazisti, verso cui appare disponibile anche la dirigenza economica triestina. Qui i tedeschi tentano l’offerta politica verso italiani e slavi, e sperimentano l’ingegneria etnica del Nuovo ordine europeo (come il trasferimento dei cosacchi in Carnia). Con tutto ciò, infine, interagiscono personalismi e volontà di vendetta.

 

Alla luce di queste premesse Porzûs appare quasi un episodio ineluttabile, senza che il termine giustifichi o attenui. Un vulnus lacerato e lacerante sul quale si continuerà a dibattere inseguendo i fatti come le idee.

 

Risuona alto, con la sola eco del dolore, l’epitaffio poetico che Pier Paolo Pasolini dedicò al fratello Guido, uno degli uccisi: «Mio fratello riprende / il sanguinoso sonno / solo tra le foglie secche / e i caldi fieni / d’un bosco delle prealpi / nel dolore e la pace / d’un’interminabile domenica / Eppure questo è un giorno di vittoria».

 

Luciano Santin  

“Il Messaggero Veneto” 2 febbraio 2012 

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