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Mostar resta ostaggio delle etnie nemiche (Il Piccolo 30 ago)

Mostar. Venerdì 28 gennaio 1994 la notizia della strage rimbalza in pochi minuti a Trieste e in tutto il mondo. Nella martoriata città della Bosnia Erzegovina, tre inviati della Rai di Trieste, il giornalista Marco Luchetta, l’operatore Sasha Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo vengono uccisi da una granata. Erano lì per realizzare un filmato su un ospedale per bambini. Erano andati per far capire l’orrore e l’assurdità di una guerra a due passi da casa. Prima tutto sembrava lontano da noi, in una ex Jugoslavia spaccata in pezzi di cui i triestini con difficoltà collegavano nomi e posizione geografica. La città reagì alla tragedia con una coesione mai vista prima. Cinquemila persone accolsero con un applauso l’arrivo delle salme. La guerra era arrivata a Trieste, che ancora una volta aveva pagato per i silenzi della politica.
Quindici anni dopo, quando i pezzi della ex Jugoslavia sono diventati, o stanno diventando, Europa siamo tornati a Mostar, ancora una volta per raccontare e capire se il passato ha insegnato qualcosa. La città è senza sindaco. Riunificata per statuto imposto dalla comunità internazionale non riesce a stabilire, tra le varie etnie, chi comanda.

 

di ANDREA LUCHETTA

TRIESTE Mostar è senza sindaco dalle elezioni dello scorso ottobre. Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe obiettare, vista la frequenza delle crisi politiche bosniache. Non fosse che, come sottolinea l’International Crisis Group, il braccio di ferro fra il principale partito musulmano e l’Unione democratica croata mira a stabilire una volta per tutte chi comanda sulle sponde della Neretva. Molte cose sono cambiate dalla fine della guerra a oggi, e in questi mesi i nodi stanno venendo al pettine. Nel 2004, dopo dieci anni di separazione, l’Alto Rappresentante della Comunità internazionale ha imposto la riunificazione amministrativa della città. Peccato che nessuno fosse d’accordo sul contenuto del nuovo Statuto cittadino.

Il problema, com’è sin troppo ovvio, riguardava la spartizione del potere. Fra 1991 e il 2003, grazie a un’intensa opera di pulizia etnica, i croati sono riusciti a guadagnare la maggioranza assoluta della popolazione. Le nuove regole elettorali, quindi, sono diventate vitali per entrambe le comunità, perché potevano creare una condizione di perenne dominio di un’etnia sull’altra. Non volendo premiare i frutti della pulizia etnica, però, l’Alto Rappresentante ha optato per l’elezione indiretta del sindaco e ha istituito un sistema elettorale finalizzato a garantire a entrambi i gruppi lo stesso numero di seggi nel Consiglio comunale.

La crisi è scoppiata proprio in questi mesi a causa delle recenti difficoltà dell’Unione democratica, partito solito a riscuotere percentuali bulgare fra i croati di Bosnia. Vedersi sfilare anche Mostar, principale centro economico e culturale dei nazionalisti erzegovesi, subito dopo aver perso molti dei tradizionali feudi, sarebbe stato un colpo troppo duro da assorbire. Per capire fino in fondo il peso delle sconfitte della formazione croata, bisogna considerare che la guerra del 1991-1995 ha legittimato, in ogni gruppo nazionale, delle etnocrazie profondamente corrotte, inclini a fondare il proprio potere sul controllo clientelare dell’amministrazione pubblica e del settore privato. Il risultato è una scelta politica non solo marcia, ma radioattiva. Contamina tutto ciò che circonda, perpetrando uno schema fondato sulla lottizzazione e sullo scontro interetnico. Perdere Mostar, il boccone più grosso, avrebbe significato una riduzione di potere semplicemente inaccettabile per un’Unione Democratica in debito d’ossigeno. Da qui, di conseguenza, la scelta di non arretrare di un metro. Con la segreta speranza che il protrarsi dello stallo spinga l’Alto Rappresentante a intervenire nuovamente, per imporre l’elezione del sindaco.

Mafia, ideologia, disincanto. C’è un po’ tutto nella crisi politica di Mostar che, mai come oggi, sembra riflettere l’immagine di un paese incapace di voltare pagina. Se in Erzegovina piangono, a Sarajevo non è che si rida molto. La scena politica è paralizzata da più di tre anni, dal fallimento dei primi, timidissimi negoziati per la riforma dell’ordine costituzionale. È dal 2006 che lo spazio pubblico bosniaco vive un regresso costante, sempre più ostaggio della retorica oltranzista dei partiti maggiori. I nazionalisti hanno capito che lo scontro interetnico è la condizione migliore per preservare lo status quo, con tutti i privilegi che comporta e soffiano sul fuoco senza remore. Il più potente politico serbo-bosniaco, Mirolad Dodik, non perde occasione per minacciare l’indipendenza della Republika Srpska, scuotendo l’ordine di Dayton sin dalle fondamenta. Croati e musulmani sono divisi come sempre. L’economia è in crisi e l’assenza di riforme non fa che aggravare l’impasse. Le nuove generazioni, nel migliore dei casi, crescono nell’ignoranza reciproca, visto che ogni nazionalità dispone di un sistema educativo autonomo. E anziché affrontare tutti questi problemi, i principali partiti drogano lo spazio pubblico, saturandolo di proclami nazionalistici che impediscono alle altre questioni di affiorare sull’agenda nazionale.

Una situazione potenzialmente molto critica, insomma. Tanto più se consideriamo che, a gennaio, un articolo di Balkan Insight denunciava la corsa alle armi di numerosi circoli privati. E che, probabilmente, l’Alto Rappresentante e le truppe internazionali lasceranno il paese nello spazio di pochi mesi, al massimo un paio d’anni.

In pochi sembrano credere alle possibilità di una nuova guerra. Eppure molti analisti, sia bosniaci sia stranieri, concordano nel dire che la Bosnia sta correndo verso la dissoluzione. L’unico attore che pare in grado di invertire questo trend, in mancanza di un miracoloso rinsavimento delle oligarchie locali, è l’Unione Europea. Peccato che, allo stato attuale, la candidatura bosniaca sia insostenibile. Le elezioni del prossimo anno si presentano come cruciali: una vittoria dei partiti moderati potrebbe bloccare la deriva attuale, rendendo ipotizzabile che la Bosnia colmi il gap di competitività che la separa dai fanalini di coda dell’Ue entro il 2018. Solo che nemmeno gli oppositori, troppo deboli e sradicati, sembrano credere alle proprie possibilità. In mezzo a questo bel ginepraio, l’Alto Rappresentante si trova in una posizione tutt'altro che invidiabile. L’intero paese è ostaggio di un gioco a somma zero: se l’attuale amministrazione internazionale sceglie di restare finché il contesto non si stabilizza, perpetua la condizione di dipendenza della politica locale. Se parte, lascia il paese nelle mani dei suoi potenziali distruttori. Una soluzione esisterebbe, ma sembra mancare del necessario supporto politico: colpire i gangli del potere nazionalista. Sradicare le sue fonti di finanziamento, rimuovere gli ufficiali corrotti, garantire ai partiti minori uguale accesso al sistema mediatico. L’Alto Rappresentante Petrisch ci aveva provato già nel 2000, ottenendo dei risultati significativi. A costo, però, di un’escalation che aveva messo a repentaglio la sicurezza delle truppe e degli ufficiali internazionali. Un prezzo troppo alto da pagare, si dev’essere deciso nelle capitali europee. E pazienza se fra qualche anno rischieremo di trovarci punto a capo. Un potenziale suicidio, ma valle a spiegare ai Grandi.

Ecco quindi che lo stallo di Mostar, oltre ad essere un potenziale focolaio di fortissime tensioni inter-etniche, è la migliore metafora della crisi bosniaca e del ruolo giocato dalla Comunità internazionale. Se si va a intervistare il delegato dell’Alto Rappresentante per la Bosnia sud-occidentale, Anatoly Viktorov, ci si sente dire che Mostar è una città unita, che la gente può passare tranquillamente da est a ovest. Che, quattordici anni dopo Dayton, la Bosnia è un paese pacifico. Poco importa che quasi nessuno sia disposto a scommettere sulla sua futura stabilità. Che l’economia di Mostar, come quella bosniaca, sia lottizzata su base etnico-politica. Che i nazionalisti siano al muro contro muro. Dev’essere una sorta di dogma per gli ufficiali internazionali: finché non si spara, non ci si può lamentare. L’unico problema è che questa miopia ipocrita copre il gioco dei nazionalisti e dei loro protetti.

E però sarebbe ingenuo aspettarsi qualcosa di diverso. La comunità internazionale non è un attore super partes. A Mostar come in Bosnia ha giocato pesantemente, restando in equilibrio fra le esigenze di politica interna e gli interessi contrastanti dei suoi membri. Lo stallo è evidente: colpire i nazionalisti richiederebbe dei sacrifici che non siamo disposti a sostenere. E così i nuovi Karadzic sono liberi di paralizzare il paese. È ora di partire, tanto più che i fondi per le missioni vengono ridotti di anno in anno. Prima di farlo, però, bisogna creare l’impressione di aver centrato l’obiettivo. Passare una mano di vernice sulla ruggine che rischia ancora di far marcire questo paese.

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