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La Fiume multietnica di Vandano (Il Piccolo 13 ago)

di DIEGO ZANDEL

Novantdue anni di leggerezza. Brunello Vandano, classe 1918, minuto, magro, incede con passo tranquillo e sicuro sul marciapiede di Piazza Euclide a Roma, dove abbiamo appuntamento per parlare del suo ultimo romanzo “Ti chiedo ancora 900 miglia” (pagg. 277, euro 18,00), edito da Bompiani. «Mi è costata fatica fisica scriverlo, per via degli occhi. Non ci vedo più come una volta – confessa Vandano, – ma bisogna pur pagare un tributo alla vecchiaia». Eppure, quella che racconta è una storia di giovani, una storia che comincia, sì, grosso modo ai giorni nostri ma affonda con la memoria alla fine degli anni Trenta, a Fiume e nel golfo del Quarnero, quando il protagonista, lo scrittore Sandro Laurano, ha 18 anni e si trova proprietario di un motorsailer di 15 metri di nome “Uscoca” regalatogli da un’amante particolarmente generosa. Sarà ormai ottantenne, quando in un cantiere del Tirreno, nei pressi di Roma, riconoscerà in una barca in demolizione, seppure un po’ modificata, quello stesso motorsailer che gli era appartenuto, appunto, tra il 1939 e 1941 a Fiume.

La conferma che si tratti proprio di lei l’ha avuta subito dopo un breve sopraluogo a bordo. Per Laurano è come ritrovare un vecchio amore. Non è solo per la barca, ma per i tanti ricordi legati ad essa, in particolare a due donne amate: la nobile fiumana Illiria, della famiglia dei Frankopan, ramo croato dei Frangipane, legata al Castello di Tersatto che domina Fiume e la compagna di scuola, Daniza. L’idea di ricomprare quella barca per sistemarla e tornare a navigarci è immediata. Così come l’onda lunga della memoria comincerà a prendere corpo in pagine fortemente evocative, non solo di momenti intimi di grande tenerezza ed eros ma della grande storia, con la seconda guerra mondiale alle porte e la tragedia che ne è seguita a segnare il destino di tutti.

“Uscoca”, il nome della barca che deriva da quello dei pirati dell’adriatico che nel 1600 davano filo da torcere ai veneziani. Dove nasce la suggestione di questa barca, vera protagonista del romanzo?

«Nasce dall’unico episodio autenticamente autobiografico del mio romanzo, relativamente a una barca che ho posseduto per 30 anni. Non a 18 anni come il protagonista Sandro Laurano, ma ormai oltre i 40 anni compiuti. La barca si chiamava Gacì, lo stesso nomignolo con cui chiamo famigliarmente mia moglie. Dopo averla, con grandissima malinconia, venduta, mi capitò di ritrovarla tutta trasformata e avviata dal nuovo proprietario alla pesca subacquea nel mar Rosso. In quel momento provai una piccola emozione e, come avviene per molti romanzieri, intorno ad essa prese corpo l’idea del romanzo, che è poi la storia di un uomo che ama il mare e le barche e che, nel rivedere dopo anni la sua barca, gli capita quello che succede ritrovando una persona amata».

Infatti, il linguaggio marinaro di cui è intessuta la pagina del romanzo con la barca in navigazione, è straordinario.

«Il mio amore per il mare è nato a Fiume, tant’è che, parlando di mare, in maniera del tutto naturale è esplosa nella mia immaginazione quella città con il suo golfo, il Quarnero, luoghi dove ho vissuto dalla mia prima infanzia alla giovinezza».

Lei, a differenza di Sando Laurano, però non è nato a Fiume…

«No, sono nato a Roma. Ma giunsi a Fiume quando avevo cinque o sei anni. Mio padre, funzionario della Banca d’Italia, vi fu trasferito ed io vissi lì, compiendo tutti gli studi dalle elementari alle superiori, prima di iscrivermi all’università qui a Roma. Nel romanzo mi è piaciuto pensare che il padre del protagonista fosse stato Legionario di D’annunzio, ma solo perché l’impresa fiumana aleggiava sulla città come un’atmosfera magica. Per il resto, Fiume, per le sue caratteristiche multietniche e multiculturali, è stata particolarmente formativa per me. Convivevamo in grande armonia cittadini appartenenti a popoli diversi. Io, oltre agli italiani, avevo amici slavi, non so neppure se croati o serbi, non me lo chiedevo nemmeno, tedeschi, ungheresi, ebrei, greci… ma eravamo tutti fiumani. Come le due donne Illiria e Daniza…».

Se la barca rappresenta l’unico aspetto autobiografico, Illiria e Daniza come sono nate?

«Sono entrambe immaginarie, anche se le due storie d’amore che le legano a Sandro Laurano pervadono l’intero romanzo. Il significato che do a questi due personaggi è legato proprio a quegli aspetti di Fiume che le ho detto, di città stramba e soave, più italo-balcanica che mitteleuropea. Le due grandi passioni, anche tragiche, tra Sandro Laurano, italiano dalla testa ai piedi e Illiria e Daniza, slave dalla testa ai piedi, sono materiate di una comprensione reciproca. Nei loro rapporti c’era qualcosa che va oltre l’amore. Illiria, che era di 12 anni più grande di Sandro, lo voleva educare a un futuro eroico, e in quel momento non significava nulla che lei fosse una nobile croata ultranazionalista, legata ai suoi antenati croati, che poi, come vedremo andando avanti nel romanzo, subirà la sorte di molti nazionalisti croati ed altri uccisi dai titoisti a Jasenovac. Così per Daniza, croata anch’essa, coetanea e compagna di scuola di Sandro. Ecco, ciò che mi interessava venisse fuori era questa multietnicità armoniosa che in modo profondo è stata sottolineata anche da Claudio Magris nel suo “Microcosmi”».

Il romanzo ha molti risvolti, alcuni anche avventurosi. I ricordi di Sandro sfilano mentre la “Uscoca” rimessa a nuovo naviga verso le coste africane. A un certo punto c’è anche un incontro conflittuale con una carretta di clandestini. Il vecchio Sandro Laurano ha pietà per i clandestini e vorrebbe dar loro una mano. Non saranno queste cinquanta o cento persone a mettere in crisi il ricco occidente, pensa, anzi, contribuiranno a renderlo ancora più ricco…

Sono echi di questa nostalgia di una multietnicità armoniosa tipica della vecchia Fiume che ritorna?

«Probabilmente. Però, accade anche che quando Sandro Laurano e i tre amici che sono con lui in barca – anch’essi inventati seppur tutti composti da piccoli frammenti di tante persone conosciute che poi la fantasia ristruttura in forme nuove – vedono i caporioni, trafficanti di clandestini, gettare in mare alcuni di quei poveretti, il loro primo impulso è quello di ucciderli. Non lo fanno solo perché non ne sono capaci e perché ormai tutti anziani o di mezza età».

Fiume, Illiria, Daniza, non spariranno neppure durante l’approdo in Africa, il loro ricordo seguirà l’Uscoca fino alla fine, come un’ossessione… Le deve essere costato molto lasciare Fiume, il Quarnero. Personalmente quando è stato?

«Potrei dire nel ’41, quando partii soldato per la Russia, dove feci tutta la campagna, compresa la ritirata, rimanendo molto provato. Per fortuna, nonostante le apparenze ho un fisico robusto. Uscito dall’ospedale tornai per la convalescenza a Fiume. Era il giugno del ’43, poco prima della caduta del fascismo. La moglie del generale, che comandava la piazza, chiese a mia madre il desiderio di vedermi. Voleva che le raccontassi della mia avventura in Russia. Andai da lei e restai incantato da questa donna bellissima, ungherese. Sembrava uscita da uno dei romanzi di Ferenc Kormendi. Ingenuamente, preso da lei, le raccontai tutto, la disorganizzazione, com’eravamo stati mandati allo sbaraglio e quant’altro. Qualche giorno dopo venne a trovarmi uno della polizia, che per fortuna mi conosceva. Mi disse: lo sai, ti dovrei arrestare per disfattismo. E perché? chiesi. Mi mostrò un foglio. Era verbalizzato tutto quello che avevo raccontato alla moglie del generale. Allora non c’erano i registratori, ma tutto era riportato con le mie precise parole. Quella donna era una spia. Alla caduta del fascismo, non passai con i partigiani. Semplicemente presi il treno e venni a Roma, allora città aperta. E qui restai per sempre. Dovetti invece attendere il 1947, dopo il passaggio di Fiume alla Jugoslavia, per rivedere i miei genitori che solo allora poterono tornare a Roma. Un breve ritorno a Fiume lo feci nei primi anni Cinquanta, come inviato di “Epoca” testata per la quale lavorai 30 anni prima di passare alla Rai, ma scoprii una realtà e gente completamente diversa da quella che avevo lasciato».

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