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Il meglio del peggio e il peggio del meglio (Voce del Popolo 20 ago)

di Aljoša Curavić

“Si stava meglio quando si stava peggio”. È una di quelle frasi che ultimamente sento spesso e che mi tormenta perché non riesco a decidermi se sia effettivamente così. Chissà perché siamo generalmente propensi a percepire il passato come una dimensione in cui si stava meglio rispetto al presente? Sono tante le risposte possibili. Non trascurerei quelle che offrono una giustificazione biologica. Si stava meglio perché eravamo più giovani, perché era più facile avere un’erezione, perché la pelle era più tirata e il sedere più sodo. Non avevamo il fiatone e il medico lo vedevamo solo se eravamo costretti a marinare la scuola o il servizio militare.

In Slovenia, che è un Paese gestito, dal punto di vista politico e culturale, da una generazione che ha abbondantemente superato la mezza età, si stanno alimentando, soprattutto sui mezzi di informazione vicini alla coalizione del centrosinistra attualmente al governo, dibattiti con forti connotazioni jugonostalgiche in cui si tenta di rivalutare il defunto regime comunista e la figura di Tito, trascurando gli effetti collaterali del regime: il culto della personalità, la censura politica e culturale, l’assenza di pluralismo di informazione, l’interdizione politica, i lager, la paura. Qualcuno dirà, giustamente, che alcune di queste idiosincrasie dittatoriali si trovano anche in regime di democrazia. È vero, però si possono denunciare alla luce del sole e ci sono i mezzi d’informazione indipendenti, la società civile, le istituzioni non governative e tutto un sistema di decentramento di poteri per farlo.

Altri diranno che sotto la dittatura di Tito non c’erano i confini che ci sono oggi, che lo spazio culturale era più aperto e che uno sloveno si trovava a casa sua a Spalato così come un croato si trovava a casa sua sulle montagne di Kranjska Gora, che gli intellettuali comunicavano con più facilità e che c’era più creatività. È vero, però è anche vero che, se si vuole, non esistono barriere che possano bloccare il travaso delle culture e la comunicazione tra intellettuali. Può essere determinante, per la mia crescita culturale e psicologica, uno scrittore d’oltre oceano che scrive in inglese o in spagnolo, così come lo può essere uno che vive a Trieste o Capodistria che scrive in italiano o sloveno, se mi convincono, se mi intrigano con scritture e storie avvincenti. I tromboni che soffiano sugli interessi nazionali ed etnocentrici non mi dicono niente, li percepisco come suoni tribali di un mondo in estinzione e, a chi me lo chiede, dico che leggerli è una perdita di tempo. Così com’è perdita di tempo rincorrere la gioventù passata.

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