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Il set triestino di ”Cuori senza frontiere” (Il Piccolo 14 ago)

di CALLISTO COSULICH

Nell’era della mondializzazione può accadere che un film ambientato a Trieste venga girato a Buenos Aires. In passato la città, i suoi esterni, i suoi dintorni, divenivano indispensabili specie se la vicenda, per motivi politici o storici, o letterari, li sceglieva per il teatro dell’azione. Ne parlo per esperienza, essendo stato una volta indirettamente coinvolto, per essere precisamente nel 1949, quasi alla vigilia della mia definitiva partenza per Roma, quando arivò con la sua troupe Luigi Zampa, per girare nei pressi di Opicina ”La Linea Bianca”, che prima della uscita cambiò titolo e si chiamò ”Cuori senza frontiere”. La pellicola era prodotta da Carlo Ponti per la Jux Film, la società fondata nel 1934 da Riccardo Gualino, uomo d’affari torinese, che si distingueva per la sua grande cultura. Aveva dato vita a una compagnia di produzione e di distribuzione, che in tempo di guerra e nel dopoguerra rappresentò l’unica vera Major mai esistita nella storia del cinema italiano, una grande società privata, che avrebbe tenuto a battesimo autori quali Renato Castellani, Luigi Comencini e Giuseppe De Santis, e dato prestigio a registi già avviati come Riccardo Freda, Pietro Germi, Alberto Lattuada, lo scrittore Mario Soldati e, per l’appunto, Luigi Zampa.

”Cuori senza frontiere” trattava un tema di drammatica attualità: la laboriosa definizione della provvisoria linea di confine tra la Jugoslavia di Tito e la parte di Venezia Giulia sotto il Gma (Governo militare alleato), in attesa che il trattato di pace desse finalmente un assetto stabile alla nostra frontiera orientale. L’Italia era stata sconfitta e ciò la metteva in stato di grande inferiorità; a conti fatti senza voce in capitolo.

La situazione, all’aprirsi delle trattative, era in sostanza gestita dalle due «superpotenze», che nel frattempo erano entrate in conflitto tra di loro, la cosiddetta guerra fredda. Il confine con la Jugoslavia era divenuto un tratto della «cortina di ferro», che separava i paesi dell’Europa orientale, soggetti alla tutela sovietica, dai paesi dell’Europa occidentale, i quali non potevano muovere foglia senza il consenso degli Stati Uniti. Le due «superpotenze» avevano trovato una intesa, agendo senza troppi riguardi verso i due paesi confinanti. Si erano accordate tracciando una linea di confine, che in diversi punti attraversava al proprio interno città e villaggi, addirittura dividendo le abitazioni dai terreni di loro proprietà. La «Linea Bianca» del titolo originario, per l’appunto.

Prima di iniziare le riprese, si procedette alla preparazione, che vide impegnati sul posto il direttore di produzione, lo scenografo, il direttore della fotografia e i loro rispettivi assistenti. Il direttore di produzione, che lavorava per Carlo Ponti, era allora Bianca Lattuada, sorella del regista Alberto, la quale, appena giunta a Trieste, mi pregò di darle una mano risolvere alcuni problemi con le autorità locali. Personalmente non conoscenvo Bianca; ma ero amico di suo fratello, allora presidente della Cineteca italiana di Milano, la principale fornitrice di «classici» ai circoli del cinema, della cui fderazione ero divenuto il segretario generale. Per prima cosa coinvolsi a mia volta Tullio Kezich, il quale, collaborando alla conduzione della Sezione spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti, aveva avuto anche lui occasione di conoscere Alberto Lattuada, durante i nostri frequenti viaggi a Milano per allestire il programma del nostro circolo.

Per Tullio fu quella l’occasione di gettare le basi del secondo aspetto dell’attività in seno alla «macchina cinema», come produttore, oltre che come critico e autore.

Fu quello, se ricordo bene, l’ultimo incarico che ebbi a Trieste, prima di trasferirmi definitivamente a Roma: una divertente parentesi nell’attività quotidiana, che tra l’altro mi consentì di frequentare Gina Lollobrigida e Raf Vallone, i due protagonisti del film. La «Lollo» non era ancora giunta al culmine della popolarità, mentre Raf Vallone, ex calciatore del Torino, aveva appena debuttato in ”Riso amaro” di De Santis, troncando la carriera di giornalista iniziata nella edizione piemontese dell’«Unità». Anche Tullio e io ci prestammo un giorno a interpretare due piccoli ruoli. Erano tempi quelli, in cui i nostri registi non facevano caso al grado di professionalità degli attori. Tanto, col doppiaggio si rimediava a tutto. Le poche parole che dovevamo pronunciare erano oltretutto in slavo, poiché Tullio vestiva i panni di un partigiano di Tito e io quelli dell’ufficiale sovietico incaricato a tracciare con il parigrado inglese e americano la tormentata linea di confine. La parte di Tullio, se ricordo bene, era più impegnativa della mia. Me la cavai, ripetendo come una litania lo Svoboda Narodu, che, insieme a Smrt Fascismu apriva i programmi della radio titina.

Ogni tanto giungeva da Roma qualche regista per parlare con gli attori, e prenotarli per interpretare il loro film in corso di allestimento. Fu in quella occasione che conobbi di persona Giuseppe De Santis, il nostro regista e, prim’ancora, il nostro critico di culto, cioè da quando, in tempo di guerra, scriveva sul quindicinale «Cinema», il quindicinale diretto allora da Vittorio Mussolini, figlio del duce, che non s’accorgeva di tenere tante serpi in seno. Erano state proprio le convincenti recensioni di De Santis, in radicale contrasto con quelle dei critici ufficiali, a impartirmi, senza che me ne rendessi conto, le prime lezioni di antifascismo. Vallone aveva preso dimora in un albergo di Opicina e una sera ci invitò a cena in una trattoria del Carso, dicendo che gli sarebbe piaciuto conoscere qualche nostro amico. Di certo vennero Fulvio Anzelotti e Gianni Tamaro, ma non escludo che ci fossero anche Gianpaolo De Ferra, Giorgio Vidusso e qualcun altro ancora. Ricordo che bevemmo del terrano in tale abbondanza che alla fine eravamo tutti un po’ alticci. Ma non tanto da divertirci, quando uno di loro, versando l’ennesimo bicchiere al suo vicino di tavola, esclamò: «Dai, bevi! Tanto g’avemo el mona che paga!». Sperammo che Raf non avesse sentito, o perlomeno capito. E così è stato, prché altrimenti penso che la serata sarebbe finita in modo più imbarazzante.

Dal suo canto la Lollobrigida, che non era ancora la primadonna del nostro cinema, la «maggiorata fisica» di ”Altri tempi”, la «Bersagliera» dei ”Pane, amore…”, era ospitata a casa di Anna Gruber Benco, nipote della scrittore Silvio Benco, appena scomparso dopo avere dato alle stampe ”Contemplazione del disordine”, la sua ultima opera, probabilmente la più importante. Un’amicizia dovuta alla scoperta di essere state entrambe, nella loro infanzia, «amiche di Topolino».

Zampa aveva con sé due aiuti, uno era Bolognini, inadatto al ruolo. Piuttosto pasticcione, non passava giorno senza che combinasse un guaio. «Vedrai che Bolognini diventerà un regista di successo», mi disse Zampa, forte della sua esperienza. Profezia che puntualmente si avvrò. Bolognini infilò una serie di film graditi, sia alla critica che al pubblico.

Non ricordo quanto durò il tempo delle riprese. Certamente non più di due-tre mesi. Tuttavia, alla fine del secondo mese si respirava già aria di chiusura. Arrivò Carlo Ponti e si portò via metà della troupe dicendo che gli era necessaria per iniziare le riprese di un altro film. Così Zampa si trovò d’improvviso a doversi arrangiare con una troupe appena necessaria per girare un’opera prima a basso costo. Mai lo sentii protestare per il torto subìto da un produttore, che gli doveva molto grazie al successo dei film precedenti girati per lui. Se al posto suo ci fosse stato un regista prepotente, com’era già allora il giovane Giuseppe De Santis, le cose sarebbero andate diversamente. Pur avendo un ruolo quanto mai marginale, le riprese di ”Cuori senza frontiere” furono per me assai illuminanti sul mestiere del regista, quando deve far fronte alle pretese del produttore, e sui problemi che insorgono durante le riprese di un film.

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