di Marcella Matticchio
Torno spesso nella terra che da sempre ho sentito mia avendo capito che nelle mie vene scorre sangue Gallesanese. Fin dalla prima volta che vi ho messo piede, da piccola, ho sentito subito che c'era qualcosa di magico tra me e il borgo, un sentimento profondo, intenso, specialmente nell'aria. Crescendo poi mi sorpresi più volte a chiedere a mia mamma: «Quando torniamo a Gallesano?» quindi capii che da sempre avevo in me la Gallesanità. E' stata lei ad accompagnarmi e nelle difficoltà quotidiane. Ripensando a quel luogo a me caro mi fa stare bene e guai a chi me lo tocca. Mi ricordo che un giorno, forse per l'ennesima volta, ripetendo a mia mamma la stessa domanda, lei mi rispose: «Se vuoi possiamo andare questo venerdì e torniamo domenica, perché vado a prendere la nonna». Ed io senza un attimo d'esitazione dissi subito «Sì». Nonostante fossi consapevole che andarci solo per un fine settimana sarebbe stato una faticaccia immane (io abito a seicento chilometri da quel piccolo mondo), ci volli andare lo stesso e così feci compagnia alla mamma per il viaggio. Arrivammo verso sera di venerdì, uscimmo tutti a mangiare al ristorante, e poi a letto perché la stanchezza del lungo viaggio si faceva sentire. Il sabato passò velocemente, in giro per salutare gli amici divertendomi in loro compagnia. La domenica mi alzai di buon mattino fermamente decisa di rifarmi del tempo perduto. Anche se nel mio cuore sapevo d'essere lontana da casa provai la sensazione che le mie radici affondassero nella terra d'Istria e solo a Gallesano mi sentivo a mio agio. La mattina della partenza ero triste e malinconica, solo allora compresi che oltre ad aver ereditato da mio nonno il suo patrimonio genetico e il nome, lui mi aveva trasmesso qualcosa di immensamente più grande: l'amore per la «sua terra»e con lei un'inguaribile malattia che si chiama «nostalgia».
Mi sedetti sulla soglia della vecchia casa del nonno e incominciai ad inspirare profondamente l'aria e i profumi del mio paese al punto che mia madre mi domandò se mi sentissi male. E quando le risposi di no, lei mi sollecitò: «Ma che fai ancora lì seduta spicciati che è quasi ora di partire.» E io: «Lasciami il tempo di immagazzinare immagini, suoni e i colori della mia terra, voglio inebbriarmi del profumo del mio Paese, il soffio della bora, l'odore dei pini e quello salmastro del mare affinché rimangano per sempre dentro di me e nessuno potrà più portarmele via.».
Caricammo i bagagli e partimmo. E mentre guardavo Gallesano sbiadire in lontananza capii che, per il resto della giornata, la tristezza avrebbe preso il suo posto dentro di me. Allorché vidi la casa di mio nonno allontanarsi mi venne in mente il ritornello della canzone che cantava quand'ero piccina: «Ti porto sempre nel cuor, casetta del mio paese / dove vivevo felice e senza aver pretese. / Il campanile della chiesa come un amico gentil /mi svegliava al mattino con la campana festosa». E con queste parole nell'anima salutai il mio paese. Da allora ogni volta che parto ripeto la stessa solfa: «Addio mio picio Galisan, non so quando ci rivedremo ma, non temere, ritornerò: Questo non è un addio ma un arrivederci ! »