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Il Piccolo – 301207 – I 350 matti che la Jugoslavia abbandono’ a Gorizia

Se c’è un luogo che può sintetizzare la sgangherata storia degli ultimi cent’anni
della città questo è proprio lo spazio del manicomio oggi dismesso. O trasformato.
È una storia che parte da un secolo fa, sin da quando se ne progetta la
realizzazione. E subito s’apriva il dibattito: bisogna farlo in città oppure nei
dintorni della città o a distanza dalla città? Nel pomerio o fuori? Cosa sia il
pomerio abbiam dovuto cercarlo sul vocabolario. Pomerio, spiegano, è «post murum»,
al di là dell’abitato, in quell’eterno divenire che una volta esisteva fra la città
e i campi. Una sorta di confine. Che può essere fra l’abitato e la campagna, fra
borghesia e contado, fra un confine etnico e l’altro. Il manicomio provinciale,
discusso dai primi anni del ’900, progettato dal 1906, completato nel 1909, casca
proprio lì, sul discrimine etnico, e il muro di confine del suo campo di calcio
ancor oggi, a confini scaduti, segna il limite fra due nazioni.
Quando fu costruito il manicomio asburgico di Gorizia la psichiatria forse non era
ancor scienza. Divideva gli assistiti in due grandi categorie: i ricoverati non
autosufficienti da custodire in una sorta di periferico Cottolengo, quale quello dei
Fatebenefratelli in via Alvarez/Diaz, e gli squilibrati, o semplicemente ritardati,
che con un po’ di pazienza potevano tornar utili nelle colonie di lavoro o agricole.
La logica segregatoria non muta con l’avvento dell’Italia: grande controllo fisico e
frequente uso dell’elettroschock le cui urla non paiono udirsi né in città né
nell’ambito clinico.
Il manicomio di Gorizia raccoglie utenza da tutta la provincia, Valli dell’Isonzo e
del Vipacco e Bassa friulana. I ricoverati ruotano su una media di ottocento
persone. Statistiche attendibili non sono mai state effettuate epperò, a parte la
non trascurabile percentuale di degenti con handicap cerebrali, una forte quota di
rinchiusi lo era soprattutto per motivi sociali, successioni discusse, liti
famigliari, esasperazioni giudiziarie.
È questo che scopre Basaglia venendo a Gorizia nel 1961. I manicomi sono pieni di
gente che è stata fatta impazzire fuori e da gente che è invece impazzita dentro, a
causa della reclusione. Compito dell’ospedale psichiatrico non è il riottenimento
delle condizioni di salute ma il semplice contenimento di persone che disturbano.
Cos’ha fatto Basaglia lo sanno quasi tutti in questa città: ha abolito i recinti, ha
restituito parola e dignità a persone che ne erano state private. L’opera di
Basaglia ha proiettato il nome di Gorizia sull’onda di rinnovamento che, pur in
altri settori, si faceva largo in Europa e nel mondo. Nel 1968 quando escono
«L’istituzione negata» di Franco Basaglia ed il libro fotografico «Morire di classe»
di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin l'esperienza dell'ospedale di Gorizia
diventa un punto di riferimento imprescindibile, al mondo, per chiunque si occupi
della materia. Non ne sono entusiasti i politici locali che si vedono scavalcati.
Inizia l'opera di denigrazione che pone fine all'esperienza basagliana e ne disperde
il gruppo.
Un grande ostacolo però Basaglia, oltre alle beghe locali, lo aveva trovato anche
prima e proprio nella situazione struttturale del manicomio goriziano, che operava
sulla configurazione dell'intera provincia di prima della guerra. La maggioranza dei
ricoverati, al momento della definizione dei confini, proveniva dai paesi sloveni
rimasti al di là. Al momento della definizione del «confine provvisorio», nel 1947,
fra le tante cose spicciole da definire si presentò anche quella dei degenti
all'ospedale psichiatrico provinciale. Fra dicembre 1947 e gennaio 1948 una
delegazione di psichiatri di Lubiana prese in esame tutti i ricoverati al manicomio
di Gorizia: ne scelse alcuni, forse ritenuti guaribili, e se li portò via. A carico
dell'Italia e del manicomio di Gorizia, in forza del Trattato di pace, ne restarono
350, a perdere, sinché fossero in vita.  Basaglia, che credeva nel recupero delle
persone, si appoggiava all'opera delle assistenti sociali ed all'aiuto delle
famiglie. Cosa poteva fare con i sopravvissuti che, guerra fredda montante o
calante, da trent'anni non parlavano più la loro lingua né vedevano un parente?

Sandro Scandolara

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