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Il Gazzettino – 030208 – Con la Slovenia c’è ancora un confine

20 dicembre 2007 – 10 febbraio 2008: due momenti che, per i loro intrinseci significati, si intrecciano e si rincorrono. La caduta del confine italo-sloveno e la memoria del nostro vissuto, non solo per la loro ravvicinata attualità, si richiamano l'un, l'altra, così che per noi esuli – diversamente che per la stragrande maggioranza degli italiani – risulta impossibile parlare dell'una senza rifarsi all'altra. Della caduta del confine, specie al nord-est e da parte dei politici se n'è parlato – con spiccato provincialismo italico – soprattutto in termini di locale sviluppo economico, collegandolo anche con la nascita dell'Euroregione (Veneto, Friuli Venezia Giulia, Carinzia ed un domani, più o meno vicino, anche altre realtà regionali, ancora in via di configurazione, di Slovenia e Croazia tra cui, verosimilmente, una regione Istria, oggi più divisa che mai); si è enfaticamente preconizzata la ritrovata centralità di Trieste, attribuendole il ruolo di capitale d'area, nell'ambito di un territorio dal profilo marcatamente "asburgico"; si è fatto uso e abuso di toni entusiastici e di previsioni rosee per delineare un futuro che sa tanto di ritorno al passato, sorvolando con estrema leggerezza su due guerre mondiali, su un centinaio di milioni di morti, su sofferenze inaudite e danni incalcolabili verificatisi nel frattempo.

Ne hanno parlato parecchio anche storici, intellettuali, scrittori, opinionisti. Da queste letture si intuisce come al confine materiale, ora rimosso, se ne affiancasse un altro interiore, insito nel cuore e nella mente di tante persone che, come noi, questo confine, oltre che viverlo, l'hanno sofferto; un confine molto più difficile da rimuovere che non la classica sbarra. È una coesistenza e una sovrapposizione che tutti, anche chi non ha maturato le nostre stesse esperienze, davano per scontata e, a parole, dicevano di capire. In molti, però, per i più svariati interessi contingenti – politici, economici, sociali – avrebbero voluto che altrettanto contestuali fossero state le relative cadute. Così non è stato, né poteva essere. Ipocritamente, perciò, rifiutano di capire perché noi esuli, anziché solo acriticamente gioire, siamo anche portati a ricordare.

Costoro – e tra questi ci spiace dover annoverare anche il nostro Presidente della Repubblica, Napolitano – quando noi nel fare memoria, doverosamente ed educatamente rappresentiamo i nostri basilari diritti violati si inalberano, giudicano rozze le nostre rivendicazioni e ci accusano di essere schiavi del passato; ci invitano a dimenticare i torti subiti perché, sostengono, non è con le rivendicazioni che si costruisce la casa comune. Non sembrano essere minimamente sfiorati dal dubbio che il futuro, anziché con parole velleitarie e interessate, lo si possa costruire con atti di giustizia.
Quanta ipocrisia nella fresca professione presidenziale di "grande rispetto per le sofferenze che gli italiani, che hanno dovuto lasciare l'Istria, hanno affrontato. Sofferenze nate dalla repressione fascista prima e dalle violenze dei regimi dopo. Io la storia la conosco bene". Non al punto, però, da chiamare "le violenze di regime" con il loro giusto nome: comunismo, o titoismo che dir si voglia.

Ci sono, dunque, ben altre schiavitù del passato dalle quali il nostro Paese, o meglio la sua classe dirigente, dovrebbe affrancarsi per affrontare, con maggiori possibilità di successo, il futuro: prima di tutto la logica resistenziale e poi quella sindrome di perenne colpevolezza che, ancorché fatta sempre risalire ad altri, porta ancor oggi a rinunciare alla salvaguardia della dignità nazionale, cedendo sempre su tutto senza pretesa di contropartita alcuna. Improbabile, se non impossibile, con questo pesante
handicap, avere una qualche capacità di contrattazione con chi, di contro, è fermamente convinto – e il nostro Paese ha ampiamente contribuito con i propri pavidi atteggiamenti a radicare tale convinzione – di essere un vincente, sia da comunista che da post-comunista; con chi troppo spesso non perde occasione di manifestare la propria disistima nei confronti del nostro Paese; con chi si dimostra assolutamente irriconoscente per il supporto ricevuto nella proprie battaglie per la conquista della libertà e della democrazia. Ma c'è anche un altro aspetto, nella recente visita di Napolitano in Slovenia, che ci allarma: le concordi dichiarazioni, sua e del neo-presidente sloveno Turk, della inutilità del sin qui più volte ipotizzato, ma mai realizzato, comune percorso di riconciliazione che, a quanto detto, sarebbe già di fatto avvenuta dentro l'Unione Europea. Noi, a questa formale riconciliazione dei vertici politici ci siamo, come noto, sempre dichiarati contrari avvertendola strumentalmente ipocrita in assenza di quegli atti di giustizia che da decenni inutilmente attendiamo. L'odierna manifestata bilaterale intenzione di soprassedere alla sua attuazione, se da un lato ci solleva, dall'altro ci preoccupa fortemente. Detta rinuncia, infatti, oltre a denunciare l'evidente imbarazzo dei Capi di Stato a compiere un gesto che, senza altre collaterali concrete azioni, più che apprezzato verrebbe contestato – e non solo sul versante italiano – sottintende anche la vergognosa propensione a voler "girare pagina"
imbavagliando ancora una volta la nostra, ma anche altrui, memoria. Noi, dopo essere stati truffati dei nostri diritti ed esserci magari solamente illusi di aver riconquistato quello alla memoria, di cui non ci sentiamo affatto schiavi bensì padroni, dobbiamo ancora e sempre lottare per non farci scippare anche dell'unico atto di giustizia che ci rimane.

Silvio Mazzaroli
Trieste

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