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Giornale di Brescia – 090208 – Nelle case abbandonate l’identità di un popolo in fuga

BUIE (Croazia)

 

Se gli uomini tacciono, sono sempre le pietre a parlare per loro. I luoghi vissuti, amati e abbandonati, perché diventati di colpo estranei. Città, paesi, cimiteri. Basta venire nell’alta Istria, a Buie, o a Momiano, Portole, Piemonte d’Istria, Sterna, Grisignana, presepi medievali incastonati dalla Serenissima Repubblica sulle colline alle spalle della costa, che le scorrerie dei pirati turchi rendevano insicura.

Nei luoghi cari a Fulvio Tomizza gli italiani della Venezia Giulia sperimentarono un lungo esodo, iniziato con la fuga in massa da Pola dopo il 10 febbraio 1947 (firma del Trattato di Pace che assegnava buona parte della penisoletta alla Jugoslavia comunista) e terminato a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Pochi sanno di questo stillicidio di addii alla spicciolata, individuali, famigliari, di piccoli gruppi, che avevano cercato di resistere, vanamente, alle durezze del nuovo regime, confidando in un «prossimo» ritorno all’Italia. Speranza poi sepolta per sempre dal Trattato di Osimo, nel 1975. «Ci venga un giorno, l’accompagno, e capirà» mi aveva invitato qualche mese fa Massimiliano Lacota, il più dinamico, e anche il più attaccato, esponente delle associazioni degli esuli.

Trentaseienne presidente dell’Unione degli Istriani e figlio di esuli, viene dipinto come uomo di destra, un «duro» che non guarda in faccia a nessuno. Al punto che ha inventato dal nulla una «federazione europea» degli espulsi (tutte le popolazioni, tedeschi in testa, cacciate dopo il ’45 dalle terre liberate dall’Armata Rossa), che reclama giustizia per i vinti dalla Corte europea. Lacota ce l’ha a morte con lo Stato italiano per quella che denuncia come la «grande truffa» degli espropri mai indennizzati, come da accordi internazionali, ai profughi.

Lo seguo incuriosito, e un po’ diffidente, in questa escursione nei luoghi della memoria negata. Come negata è, al momento, la possibilità di recuperarli e ridare loro vita. Sì, perché da cinque o sei decenni, questi borghi che sembrano trapiantati direttamente dalla Toscana sono quasi totalmente disabitati. «Basterebbe un accordo bilaterale fra Italia e Croazia, i soldi per i restauri li mettiamo noi esuli, e non si tratta di nuovo irredentismo» assicura Lacota. Un fatto è certo: questi edifici dalle occhiaie nere e vuote, o con le imposte di legno scarnito mummificate dall’incuria, potrebbero tornare dei veri gioielli architettonici. Vivibili.

Altre due tappe possono lumeggiare meglio la memoria dell’italianità sradicata dall’Istria contesa e le conseguenze della Guerra Fredda. La prima porta a Padriciano, frazione di Trieste a maggioranza slovena sul Carso tagliato a fette dal freddo e dalla bora. Qui, a due chilometri dal vecchio confine italo-jugoslavo, sorgeva uno dei più grandi campi profughi. L’Unione degli istriani vi ha organizzato una mostra permanente dell’esodo (lodata anche in Slovenia per serietà e accuratezza della ricostruzione storica), che accoglie il visitatore con la testimonianza angosciante delle masserizie, armadi, tavoli, letti, oggetti d’uso comune, imballaggi ancora intonsi, lasciati dagli esuli prima di imbarcarsi per le Americhe o l’Australia.

A Gorizia l’altro passaggio cruciale: gli ex check point, dove il confine orientale innalzò tanti piccoli muri tra vincitori e vinti. Oggi la dogana della Casa Rossa, con il suo immenso piazzale vuoto, assomiglia a una ipertrofica quanto mite casa cantoniera. Ma cinquant’anni fa era l’ultimo miglio dell’Occidente capitalista prima dell’«inferno» comunista. Basta sfogliare il bel libro dello storico gradese Guido Rumici «Storie di deportazione» (Edizione Anvgd Gorizia, 2006), leggerne le allucinanti testimonianze dei prigionieri politici italiani in Jugoslavia scambiati su quel valico con i criminali comuni slavi. Mettete a confronto quelle foto, in bianco e nero, del mondo di ieri, con le vostre malinconiche, turistiche, diapositive a colori di un sito «deconfinizzato». Fatelo, prima che la melassa globalizzante dell’economia integrata e della diplomazia di buon vicinato europeo farà scivolare, di nuovo, il tutto nell’oblio.

v. di do.       

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