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Giornale di Brescia – 090208 – Memorie rovesciate di una storia contesa

Valerio Di Donato

 

TRIESTE

 

Adesso che anche l’ultimo confine della Guerra Fredda è morto per sempre e il festoso funerale bipartisan alle vecchie dogane sul Carso triestino e goriziano è stato metabolizzato come l’inizio di una «nuova era» fra Italia e Slovenia, viene da chiedersi se anche la frontiera invisibile della memoria fra i due Paesi (tre con la vicina Croazia) sia in procinto di avviarsi allo stesso destino.

La strada, probabilmente, è già tracciata. La stanno disegnando, faticosamente, gli storici di ambedue i campi. La stanno preparando, silenziosamente e in ordine sparso, singole comunità di «fratelli separati» da sessant’anni di astio e sospetti, esuli e «rimasti». Ci provano i capi di Stato (Napolitano e lo sloveno Turk), stringendosi la mano in nome del «comune futuro europeo». Ma, al momento, è solo un sentiero abbarbicato ad una montagna di buone intenzioni, dall’esito incerto. L’Italia onora il 10 febbraio, come giornata «casalinga» del ricordo: le stragi e i massacri delle foibe; e, fra il 1945 e il 1960, l’esodo forzato delle popolazioni di lingua italiana (300-350mila persone), dall’Istria, Fiume e Zara.

Fra sei mesi, saranno la Slovenia e la Croazia (eredi della Jugoslavia di Tito) a celebrare la loro rovesciata giornata del ricordo, il 15 settembre: la «liberazione» dei popoli e delle terre slave «occupate e oppresse da oltre 25 anni di dominio italiano e fascista». Con il rammarico di aver «perso» Trst, Trieste, la loro capitale morale. Celebrazioni opposte di memorie ancora inconciliabili.

«Noi però non la possiamo commemorare in pubblico, ma solo nella nostra testa», discetta nella sua pacata cantilena veneta la scrittrice Nelida Milani, a un tavolo belle époque del caffè «Sirena» di Pola, nella magnifica piazza del Foro. «Da noi manca qualsivoglia iniziativa, anche della nostra rappresentanza, perché qui non è un tema politicamente corretto e il retaggio comunista è ancora forte. La minoranza italiana si vede umiliata due volte: dalla nuova linea di Schengen, il confine della vergogna tra Slovenia e Croazia sul fiume Dragogna, che la discrimina ulteriormente. E dal giorno del ricordo, lodevole e utile iniziativa dell’Italia, alla quale noi non abbiamo accesso. Ma la storia dell’Istria ha uno dei suoi passaggi epocali proprio nell’esodo degli italiani. I tre Stati litighino pure, ma dovranno pur incontrarsi».

«È vero, non sarà una giornata felice per noi», ammette nel suo ufficio di Capodistria Maurizio Tremul, presidente della giunta esecutiva dell’Unione degli italiani (l’organizzazione dei circa 3.000 connazionali in Slovenia e dei 27.000, il grosso, in Croazia). «Al momento – riflette – non ci sono le condizioni per un dibattito pubblico sereno. Perché la Storia viene ancora impugnata come una clava. E a farne le spese è la minoranza italiana, nei suoi diritti legislativi su bilinguismo e scuole».

Il rischio di una radicalizzazione delle piccole patrie, dentro un’Europa che cammina per aggregare un po’ alla volta anche i rissosi Balcani, è il virus latente che può compromettere la marcia dell’integrazione e della pacificazione. «Nell’incontro con il presidente Turk, ci si attendeva che Napolitano parlasse dell’occupazione della provincia di Lubiana (dal 1941 al 1943, ndr), una ferita ancora aperta nella memoria nazionale – spiega la sloveno-triestina Marta Verginella, docente all’Università di Lubiana, che al fascismo e antifascismo di frontiera ha dedicato "Il confine degli altri" appena uscito per la Donzelli -. Nell’immaginario pubblico sloveno c’è ancora paura dell’espansionismo italiano, ma non si nega l’esistenza di foibe e esodo. Se ne dà però una lettura differente. Negli anni Venti e Trenta, ad esempio, 70mila sloveni lasciarono l’Italia per rifugiarsi nel regno di Jugoslavia. La storia va conosciuta nella sua interezza, senza rivendicare, da una parte e dall’altra, l’unicità del proprio dramma».

Ecco dove si intreccia il nodo gordiano della storia, di tutte le storie, di confine. Nel cortocircuito nazionalistico. «Io non credo nelle memorie condivise, ma in quelle rispettate – va dritto al cuore della questione Stelio Spadaro, istriano di Isola, il comunista della "svolta", ossia colui che nel lontano 1996 a Trieste fece autocritica politica sul vergognoso silenzio della sinistra italiana in materia -. La chiave di lettura dei nazionalismi etnici nei territori plurali non funziona, l’Europa impone di aprire tutte le pagine della storia, senza il bilancino delle "colpe altrui" che vengono sempre prima delle proprie. La Venezia Giulia deve entrare nella cultura italiana, con tutta la sua complessità. Parlando non solo delle foibe, ma anche dell’esodo, che fu un disegno preordinato di cacciata degli italiani, anche antifascisti, come la mia famiglia. Tutti i totalitarismi hanno snazionalizzato i popoli avversari: il fascismo impediva alle maestre del Carso di insegnare in sloveno, il comunismo in Istria di insegnare in italiano». La conclusione di Spadaro è un monito: «Questa parte d’Europa vivrà solo se saprà acquisire il contributo di tutte le sue componenti etniche».

 

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