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Fari fra le due sponde (lsdmagazine.com 08 dic)

Si terrà il 9 dicembre alle 18 presso la Libreria Laterza di Bari l’incontro con Enrica Simonetti autrice di “Luci sull’Adriatico. Fari fra le due sponde” (pp. 96, 12 euro, Editori Laterza). All’incontro interverrà l’assessore regionale Silvia Godelli. Per i lettori di LSDmagazine l’autrice ci ha inviato in esclusiva la prefazione del libro che riportiamo fedelmente qui di seguito.

Un mare che parla almeno quattro lingue differenti e bagna sei nazioni può sembrare il regno della diversità, eppure lo è solo apparentemente. Adriatico, come lo chiamiamo noi, o Deti Adriatik, come è per gli albanesi, o Jadransko More per i croati, è da sempre la porta tra il Mediterraneo e l’Europa continentale e il ponte tra Balcani e Italia. Un “corridoio” naturale che unisce e al tempo stesso divide quasi ottomila chilometri di coste, una natura che ricalca simbolicamente la “diversità”: da un lato un litorale tendenzialmente piatto, dall’altro una costa frastagliata, e ricca di isole (ben 718 in Dalmazia).
Anche la storia è varia in questo mare sconquassato – secondo le epoche – dai pirati e dalle guerre, e comunque sempre dai venti fortissimi e a loro volta diversi, come la gelida bora o lo scirocco. Queste sponde sono da sempre luoghi di partenza e di arrivo di popoli e potenze: romani, bizantini, veneti, turchi e asburgici hanno insediato nel tempo il loro potere o si sono mossi di qui per navigare altrove. L’Adriatico è una carta geografica liquida, una pianura d’acqua dominata dalla varietà.

Ma c’è un linguaggio comune che spira tra i venti, e questo volume lo cerca attraverso un viaggio a più tappe. Navigheremo da una sponda all’altra e ci fermeremo ad ascoltare storie, emozioni, testimonianze, “illuminati” dalla luce dei fari. Le antiche lanterne accese sui porti con la pece o i falò sulle isole che nei secoli bui erano l’unico modo per rischiarare le tenebre non si sono spenti ma rivivono nelle torri attuali, nei tanti fari secolari che si affacciano in Adriatico. Lanterne dall’architettura differente, create da governi distanti: gli inglesi le costruirono a Corfù e nelle isole ioniche, gli austriaci in parte della costa slava, i Borboni in alcuni porti italiani. Fari che raccontano epoche diverse e che sopravvivono in paesaggi a volte uguali, a volte mutati.

Da Santa Maria di Leuca a Corfù

Il nostro viaggio parte dalla lanterna del faro di Santa Maria di Leuca. Siamo a oltre cento metri sulle onde e il vento sferza la cupola, volando fortissimo sul mare, portando il nostro sguardo verso l’orizzonte, verso le montagne dell’Albania che sembrano a due passi, tra le nuvole e le raffiche di maestrale. Tentiamo di ripararci e giriamo dall’altra parte della balconata, dove si affaccia il santuario di Santa Maria de Finibus Terrae, l’antica Porta del Cielo, il luogo in cui in tempi passati finiva la terra conosciuta. “Finis Terrae”, se vogliamo, è la fine ma anche l’inizio di tutto, l’ultimo pezzo di terra che chiude il “tacco” d’Italia, l’ultima meta prima del Paradiso. In questo luogo, da sempre c’è stata una chiesa (almeno sei sono le costruzioni documentate) e il santuario nacque sulle rovine di un antico tempio dedicato, pare, alla dea Minerva. Anche il faro sul capo di Leuca, acceso per la prima volta nel 1866, potrebbe aver avuto un suo antenato, una torre con un fuoco capace di segnalare la costa ai naviganti, permettendo loro di evitare le secche di Ugento o indicando un porto sicuro in cui fermarsi in attesa di venti favorevoli. Ancora oggi le navi ferme nell’abbraccio della grande insenatura di Leuca sono tante, soprattutto nelle giornate in cui il mare è gonfio di furore. Navi nell’immensità dell’acqua, mentre sulla terraferma ci sono i pellegrini del santuario alla ricerca dell’immensità di Dio.
Le undici finestre che corrono sulla torre bianca del faro guardano un mare a tratti grigioazzurro, a tratti verde smeraldo, che è idealmente il punto in cui Ionio e Adriatico si fondono, un punto indicato per convenzione al 40° parallelo, davanti a questa striscia di terra che per gli antichi era il promontorio di Melisa, il promontorium Japigium affacciato sul lontano mondo orientale.
Dall’alto del faro, oltre i 250 scalini che portano in cima, questo Oriente sembra tangibile. Così come sarà sembrato vicino e forse inquietante ai tanti disperati che negli ultimi vent’anni sono arrivati da oriente sulle “carrette del mare”, guidati dalla luce della lanterna di Leuca. Il raggio della lanterna, che ha un portata geografica di 25 miglia (e cioè è visibile da questa distanza), è un “elastico” che appare quando qui si viaggia di notte, tra le luci della costa salentina e il profumo degli scogli. Solo ai piedi del faro e in poche altre zone del Salento, fiori selvatici color glicine s’inerpicano tra le rocce, penetrando i fori scavati dalle onde e nascondendo le piante spinose che ci graffiano le gambe, quando scendiamo tra gli scogli dal faro al mare. La forza della natura è dirompente, così come la suggestione storica di essere nel luogo in cui nel V secolo a.C. giungevano gli ateniesi che compivano la cosiddetta “rotta meridionale”, partendo dal porto di Corcira verso nord, risalendo al punto più stretto del canale di Corfù e piegando poi verso ovest, puntando sull’“Akra Japigia”, il capo di Leuca.

Le antiche storie di queste navigazioni sembrano riecheggiare mentre siamo in cima al faro insieme al suo guardiano e fissiamo l’orizzonte del mare: qui, in questa baia, si dice che approdò Enea, ma anche san Pietro, san Francesco d’Assisi e il pellegrino francese Benedetto Giuseppe Labre; qui forse la sirena Leucasia, come un “faro” vivente, era in grado, con i suoi canti d’amore, di orientare ma anche di confondere i naviganti. La lanterna attuale, con la sua colonna dirimpettaia, la Torre Omomorto che si affaccia sulla piazzetta, nonostante i tanti secoli passati e i progressi tecnologici, non ha perso completamente la sua funzione: è un radiofaro il cui segnale viene captato in mezza Europa, un simbolo di comunicazione universale racchiuso nella bianca «torre ottagona con casamento a due piani» di cui parlano i testi ottocenteschi dell’Ufficio Idrografico della Regia Marina. A quei tempi il faro funzionava a petrolio e sulla cima della sua torre si sono avvicendati tanti diversi sistemi di illuminazione, così come sono cambiate le barche, le navi, la città. Ma il senso di protezione che la baia di Leuca sembra offrire è sempre lo stesso, perché il Capo continua ad essere una sorta di tempio dell’approdo, come lo fu la grotta del dio Batas, il padrone messapico dei fulmini che qui veniva adorato nella Grotta Porcinara, non lontano dalla luce bianca del faro.

«Tutto è tenebre e incertezza, ma che importa? Al viaggiatore, per evitare ostacoli, basta vedere dieci passi davanti a sé», dice un antico detto marinaro. Parole che vengono in mente quando di notte ci lasciamo alle spalle la costa pugliese affacciandoci nel Canale d’Otranto verso Corfù: il mare è nero e davanti a noi sembra che non ci sia nulla se non l’incerto. Ma, navigando ancora, appare fioca la luce di un faro, poi di una nave. Soltanto dopo scorgiamo il profilo nebuloso della terraferma. Ecco che tutto cambia aspetto; ecco Corfù, la “porta” tra Grecia e Albania. Othoni, Paxos, Kerkira: ogni isola rimanda la sua luce e facendo rotta si capisce perché gli inglesi, arrivando dopo i dominatori turchi, qui vollero fortemente la costruzione di fari, luci pronte a migliorare la navigazione tra le coste ioniche. Nacquero così le torri create nel primo Ottocento, come il faro di Akra Sidhero sulla fortezza di Corfù, creato nel 1822 con l’antica illuminazione a specchio, poi dotato di specchi concavi e infine trasformato con l’arrivo della nuova ottica Fresnel della ditta costruttrice Sauter e Lemonnier.
I fari sembrano chiamarci nell’acqua e nel tempo. A Corfù, tra i vari fanali, le mede e le boe che illuminano la sua lunga costa, la sensazione di entrare nella storia si fa più forte e non è difficile immaginare i fuochi accesi con le enormi cataste di legna nei punti più pericolosi, negli anfratti dei naufraghi, ai tempi degli assalti pirateschi. Faro come riparo, anche se non sempre è stato così: una curiosa notizia risalente al XII secolo a.C. ed evocata anche da Euripide riporta un uso del faro non certo dedicato alla salvezza di vite umane, ma al contrario, destinato a compiere un massacro in piena regola. Accadde proprio in queste acque ioniche che Nauplio, re di Eubea, per vendicare la morte del figlio Palamede, decise, nel corso di una violenta tempesta, di tendere un tranello agli Achei: fece accendere falò sulla costa illudendo le navi che si trattasse di un porto e trascinandole invece sugli scogli. Un uso dei fuochi, antenati dei fari, che divenne molto frequente per contrastare i pirati sulle coste di mezzo mondo: con quelle fiamme “fallaci” si attiravano le navi dei corsari nei punti più pericolosi, favorendo la loro fine rovinosa tra i marosi.
Dai fuochi ai fari. Tra le antiche carte della Marina Militare italiana, affiorano le descrizioni delle torri o delle «colonne in ferro unite a casotto in lamiera» che è affascinante ritrovare oggi, nello stesso punto di ieri. Approdiamo all’isoletta Madonna (in greco, Nisida Panagia) a est di Paxos, il cui faro è dal 1825 accanto alla chiesetta: fu inizialmente dotato di un sistema di 10 specchi parabolici. Nel 1890 fu installato qui il meccanismo del faro vicino di Lakka e da allora tutto è rimasto identico, salvo l’aggiunta di un congegno che permette l’accensione automatica del faro, la cui lanterna lancia una luce visibile a nove miglia di distanza.
Andiamo all’entrata nord del canale di Corfù, verso lo scoglio che tutti chiamano Nisis Peristerai e ritroviamo un altro faro senza tempo. È su una torre circolare bianca e sulle carte si legge che emanava «luce bianca a splendori rossi» (secondo il vecchio vocabolario: si indicavano “lampi” in caso di luce intermittente breve e “splendori” oltre il tempo di un secondo). Il nome italiano di questo luogo continua ad essere Scoglio Tignoso e, nonostante i quasi duecento anni passati, la casetta accanto alla torre è ancora lì, molto invecchiata e ormai disabitata. Ed è come se, all’ombra dei fari, il tempo si sia fermato.

Enrica Simonetti giornalista della “Gazzetta del Mezzogiorno’’ per Editori Laterza ha pubblicato “Lampi e splendori. Andar per fari lungo le coste del Sud” e “Luci ed eclissi sul mare. Fari d’Italia” (2006).

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