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Eliminazione fisica: unica ricetta di Tito per il clero (Avvenire 24 nov)

Che l’avversione del potere alla Chiesa non fosse giustificata dalle esigenze della lotta armata risulta ben docu­mentato anche a Gorizia, come nella lettera pasto­rale dei vescovi della Jugoslavia. A guerra finita fu impedito al vescovo di recarsi nelle zone slovene per amministrare la cresima, vennero uccisi i sa­cerdoti Filip Tercelj e Isidoro Zavadlav, il decano di Postumia don Kerhne impazzì per gli interrogato­ri, numerosi sacerdoti arrestati». Lo racconta don Luigi Tavano, già presidente dell’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia e autorevole ricercato­re sulla storia socio-religiosa dell’epoca. «Quando entrò in vigore il Trattato di pace, il 15 settembre 1947, monsignor Franc Mocnik, nominato dalla Santa Sede amministratore apostolico dei territori sloveni passati alla Jugoslavia, un prelato stimato senza compromissioni politiche, tre giorni dopo venne costretto da un gruppo di giovani comunisti a correre fra schiaffi e sputi fino alla stazione ferro­viaria, dove venne sollevato e gettato oltre il filo spinato sul territorio italiano.

Tentò di chiedere spiegazioni alle autorità di Lubiana, ma rientrato a Solkan (Salcano) il 12 ottobre venne di nuovo sca­raventato oltre la linea di confine». Ma il carattere totalitario assunto dal potere nei confronti della Chiesa trovò conferma ben prima, ad esempio col clamoroso arresto dell’arcivescovo Carlo Margotti, che pur aveva nominato vicario generale un prela­to sloveno e il 30 aprile 1945 aveva rivolto un invito a tutti i fedeli, italiani e sloveni, al «perdono» e a collaborare per la ri­presa sociale. L’eserci­to jugoslavo, appena entrato a Gorizia il 2 maggio 1945, arrestò Margotti e dopo alcuni giorni di domicilio coatto lo espulse dalla città con l’accusa di es­sere stato «contrario al movimento di libera­zione nazionale e che la sua condotta politi­ca poteva fomentare la guerra civile». Anche sacerdoti e suore ven­nero arrestate e depor­tate, mentre migliaia di sloveni anticomunisti abbandonarono casa e beni per non cadere in mano ai partigiani ju­goslavi. Nell’arcidioce­si di Gorizia, inserita nello Stato italiano dopo la Grande Guerra, viveva­no 170 mila fedeli sloveni; autoctoni per storia, lin­gua e cultura, presentavano una solida coscienza della propria identità nazionale. «La resistenza alla pressione snazionalizzatrice dello Stato fascista a­cuì questa solidarietà di popolo, sostenuta in par­ticolare dal clero, che aderì facilmente alla lotta partigiana antifascista, avviatasi in Slovenia. Ma ben presto la conduzione di questa lotta – spiega Tavano – venne egemonizzata dal potere comuni­sta. Ne derivò un grave problema di collocazione i­deologica per i cattolici». Dopo l’occupazione ju­goslava la grande maggioranza degli sloveni aderì di fatto, il clero evitò prudentemente di prendere posizioni pubbliche. Come si spiega allora la vio­lenza che lo stesso clero e i fedeli sloveni subirono anche nel Goriziano? «Prevalse il criterio dell’eli­minazione fisica dell’avversario politico – spiega Tavano – anche nei confronti di quanti non condi­videvano le finalità e i metodi di questa lotta. Così anche nel Goriziano si avviò l’eliminazione di membri del clero (Ladislao Pišcanc, Ludovico Slu­ga, Luigi Obit, Antonio Pisk, E. Kete, Rodolfo Tr­cek), ma anche di singole persone che esercitava­no autorità morale e non risultavano allineate al potere partigiano ( Vera Lestan, maestra a cui il fa­scismo aveva negato l’insegnamento; Jože Bercelj, artigiano attivo nella società operaia cattolica, uc­ciso con tre figli piccoli). Si costrinsero così i catto­lici a un’adesione, anche solo passiva, mentre il nuovo potere politico rivelava sempre meglio il

Francesco Dal Mas

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