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Da Trieste a Salonicco: così cambiano i Balcani (1) (Il Piccolo 02 ott)

di PIER PAOLO GAROFALO

TRIESTE Dall’Adriatico all’Egeo, da Trieste a Salonicco e poi a Volos: una ”sparata” in automobile di quasi 1.400 chilometri attraverso tutta l’ex Jugoslavia fino alle spiagge delle vacanze. Per verificare un’alternativa agli aerei e ai traghetti ma soprattutto per ripercorrere, a circa 15 anni di distanza, i luoghi e i nomi legati alle guerre scatenate da Milosevic e dagli aneliti indipendentistici delle repubbliche ed etnie che il Maresciallo seppe tenere, a torto o a ragione, aggregate per 45 anni.

Tutta l'ex Jugoslavia, a 10 anni dalla fine degli scontri nella sua ultima area di crisi, il Kosovo, è ormai lanciato verso l'integrazione nell'Unione europea. Pochi giorni fa i ministri dell'Interno di Unione europea e area balcanica hanno convenuto di abolire i visti per l'ingresso nella ”Casa comune” anche per i cittadini di Serbia, Albania e Macedonia; la Slovenia è già nell'Area Schengen di libero transito e nella Zona euro e la Croazia, dopo lo sblocco dello ”stop” da parte di Lubiana, entrerà nell'Ue entro la fine del 2010. Già oggi, virtualmente, tra pedaggi e benzina pagabili anche nella moneta continentale o con la carta di credito, un viaggiatore potrebbe raggiungere la Grecia via terra senza effettuare un cambio di valuta.

«Fantasmi» e turismo

È vero che un decennio dopo la conclusione di tutti i conflitti armati nei Balcani Occidentali, «il destino di 15.655 persone mancanti è ancora sconosciuto», come afferma da Belgrado il capo del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) in Serbia, Paul-Henri Arni, un numero ancora troppo alto, insieme ad altri fattori, per una vera riconciliazione. Ma chi attraversa questi Paesi, per turismo o lavoro, stenta a trovare riscontri di tale realtà e può godere di servizi di livello del tutto accettabile. «Ormai non vi sono problemi specifici di sicurezza o inaffidabilità degli operatori-partner locali – afferma Pierpaolo Mazzarella, agente di viaggio triestino specializzato nell'Est Europa – e bellezze culturali, architettoniche e naturali sono tornate a essere a disposizione di tutti».

Quindi in macchina non per un accurato pellegrinaggio in località ancora oggi cariche di drammi e suggestioni, piuttosto per una ”traversata” perlopiù autostradale ma che già basta, nella segnaletica stradale e nei paesaggi allora sconvolti dalle armi, a tentare d’intravedere cosa è cambiato in tre lustri in questa parte dei Balcani. Formata adesso da quattro nazioni: la mitteleuropea e variegata Slovenia, la fiera e monotona Croazia, la claudicante e interminabile Serbia, l’enigmatica e vuota Macedonia. Fino alla solare e contorta Grecia, dove a dispetto della maggiore distanza l’italiano si trova più vicino a casa, sotto ogni aspetto. La curiosità prevale sulla razionalità nella scelta della ”via” terrestre, curiosità condivisa dall’anziano giardiniere istriano che ogni settimana viene a curare il verde di molte case triestine. «Voglio sapere tutto al ritorno – sbotta sorpreso -: tranne le mie parti conosco solo Banja Luka, dove ho fatto il militare nell’Armata popolare jugoslava».

Poche regole: andatura poco sopra i limiti consentiti, poiché ormai le pistole autovelox sono in dotazione da Fernetti a Euzoni e soste ridotte all’osso, per consentire un paragone con i tempi del viaggio marittimo o aereo. L’auto è un’utilitaria italiana di più di 10 anni, senza aria condizionata. Un mezzo da kamikaze, con gli oltre 30 gradi del primo giorno di marcia, ma seppure bianca non è una Toyota e non siamo in Afghanistan, quindi nessun timore di essere scambiata per la vettura di aspiranti ”martiri” suicidi.

Pedaggi «strozzaturisti»

La partenza da Trieste è a mezza mattina, con un cielo che promette tutto e niente: dopo Postumia infatti inizia una pioggia che a Lubiana si rafforza e poi diventa diluvio. Ma si procede bene, il traffico è più intenso nel senso inverso, con le stazioni di servizio piene zeppe di automobili tedesche e austriache dirette ai lidi italiani. Si comprende bene come la Slovenia, in pratica senza coste, abbia puntato tutto sugli alti pedaggi per ”fare cassa” a ogni stagione turistica in barba ai moniti di Roma e dell’Unione europea. Prima del Castello di Otocec, luogo di summit internazionali, l’autostrada s’interrompe tra colline boscose ma scavatrici e camion sono all’opera per completare il nastro d’asfalto. In due ore e 10 minuti si arriva al confine con la Croazia: poche auto in colonna, molte di più sul lato opposto. Come in ogni altro posto di frontiera fino alla Grecia, la corsia preferenziale per i cittadini Ue è fatta utilizzare indistintamente ma in 10 minuti si è oltre. Subito dopo il primo degli innumerevoli caselli di pedaggio che sbarrano la via: il limite è di 130 chilometri orari e in un attimo si giunge alla tangenziale di Zagabria, tanto sovradimensionata da ricordare le opere dei regimi del Patto di Varsavia con i loro deliri di grandezza.

È sabato e il traffico inizia subito a diradarsi con l’ingresso nella fertile e popolata pianura della Slavonia. A fine estate i profani riconoscono solo i campi con le grosse piante di granoturco ancora da raccogliere ma anche nel giorno prefestivo qualche contadino è al lavoro e l’acre odore del concime entra nell’abitacolo accentuato dal gran caldo. Un piccolo convoglio di autocarri militari che rimorchiano trattori si avvicina sull’altra carreggiata. Sono dell’esercito di Zagabria. Ormai le colonne dell’Unprofor (Forza di protezione delle Nazioni Unite in Croazia e Bosnia-Erzegovina), Untaes in Slavonia e Baranja e poi di Ifor e della successiva Sfor a guida Nato nella seconda nazione, sono sparite da queste vie di comunicazione. Come del resto, quasi completamente, lo stesso contingente internazionale: è ridotto a nuclei di una manciata di uomini con compiti di sorveglianza ma soprattutto di collegamento con le autorità e comunità locali nelle quali operano. I Lot (Liaison and Observation Team) si sono rivelati molto efficaci nel sostenere la pacificazione e la crescita della società civile. Un autogrill distrutto verosimilmente da uno scoppio o da un incendio riesce subito, con i suoi muri anneriti, a ”introdurre” chi transita, almeno nelle suggestioni, nell’area una volta più ”calda” del sanguinoso confronto tra l’Esercito allora ancora jugoslavo anche nel nome e gli indipendentisti croati nei primi Novanta. Lo potevano notare i giornalisti reduci dal fronte e poco importa che neppure all’epoca si sia potuto chiarire se la distruzione fosse frutto di odio etnico o di un incidente. Questa regione, insieme alla costa con i suoi turisti estivi, è la ”culla” economica della Croazia e poco lontano si è combattuto accanitamente. S’inizia. Dragalic sfoggia una serie di recenti casette a schiera riservate ai profughi di guerra, come a Nova Gradiska.

Il manto stradale è perfetto, il traffico inesistente e in un attimo, a 411 chilometri da Trieste, dopo quattro ore e 10 minuti, si arriva all’uscita di Slavonski Brod. La vivace cittadina, in parte industriale, è stato un famoso caposaldo delle truppe croate contro l’avanzata dell’Armata jugoslava verso Ovest e Zagabria. La lancetta del carburante inizia a calare sensibilmente e dopo una trentina di chilometri è tempo di un rabbocco. Le vecchie e scolorite colonnine di rifornimento dell’Ina sfoggiano un invitante cartello in inglese: ”Paga con Mastercard o Maestro e goditi quest’estate” ma alla fine, dopo qualche strisciata a vuoto, 33 euro passano di mano per 30 litri di Super 95. Una capatina ai bagni convince anche i più ottimisti che, un po’ a Est di Zagabria, l’Unione europea e i suoi standard cedono il passo ad altri. Il giudizio è sospeso di fronte alle piastrelle rosso cupo sbrecciate, agli sciacquoni che non sciacquano e al sapone dal colore del Paraflu che cola, con la stessa consistenza, da una tanichetta similare. È forse per questo che nessuno lascia le tre kune del prezzo d’ingresso nell’apposita scatola.

Vukovar «città martire»

I campi lasciano posto a qualche piccola chiazza di bosco e il cartello stradale indica, oltre ai 153 chilometri che lo separano da Belgrado, il luogo-simbolo della guerra croato-serba: Vukovar, con l’assedio dei ”federali” da agosto a novembre '91, la sterile mobilitazione internazionale con Pannella e i radicali italiani in uniforme croata a Capodanno '92 nelle trincee della vicina Osjiek sotto attacco, l’inutile resistenza dei difensori indipendentisti terminata con la resa e il successivo massacro, finanche quello dei feriti ricoverati in ospedale, il cui contorno nella sua efferatezza ha prima faticato settimane a essere perfino accertato, poi anni a venire punito dalla giustizia internazionale. Solo, e non del tutto, con la fine del regime di Milosevic a Belgrado il Tribunale penale internazionale dell’Aja ha potuto disporre degli accusati, trovati tutti colpevoli e che avevano goduto di protezioni e coperture. Uno, il più celebre, il generale Ratko Mladic, il ”Napoleone dei Balcani”, deve essere ancora arrestato. La sua mancata cattura, nonostante il governo serbo assicuri cooperazione, pesa come un macigno nella marcia d’avvicinamento del Paese verso la ”Casa comune” europea. Intanto ”La Repubblica di Serbia dà il benvenuto” recita un grande pannello plurilingue al confine, dopo circa cinque ore e mezzo di viaggio. Una fila di wc chimici e un piccolo chiosco con bibite è tutto ciò che conforta l’attesa delle ben quattro file di vetture e una sfilza di Tir turchi. Tutto si risolve in 25 minuti, però, senza neppure un controllo al bagaglio: non verrà fatto aprire fino alla meta finale.

La campagna pianeggiante torna a distendersi verso la capitale sorta alla confluenza di Sava e Danubio; su un cavalcavia passa un carretto a cavallo, solo superstite di una vita campestre che non c’è più neppure qui e ispira tenerezza. Una pompa di benzina antidiluviana e un motel-casinò colorato come il vestito di Arlecchino ma molto male in arnese, invece, solamente intristiscono.

A loro modo anticipano ciò che sarà Belgrado, almeno quella vista dalla tangenziale: una città, simbolo di una nazione, dove c’è tutto ma tutto è sospeso tra il lusso e le modernità riservate a pochi e l’essenziale, l’appena dignitoso imposto alla massa. Imposto dallo scriteriato nazionalismo dei Novanta con i suoi conflitti, dalle sconfitte militari, dalla riprovazione internazionale che ancora oggi fatica a individuare e a sostenere la parte filo-occidentale della società serba, dall’Unione europea che in tempi recenti ha privilegiato altre nazioni, meno attrezzate se non altro culturalmente, nel loro avvicinamento a Bruxelles.

(1 – continua)

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