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Arrestato Mladic: fine della guerra calda (La Stampa 27 mag)

di Enzo Bettiza

Con l’arresto dopo sedici anni di latitanza blindata dell’ex generale serbo bosniaco Ratko Mladic, catturato in un villaggio non lontano da Belgrado, è di fatto giunta alla fine la terza e ultima guerra calda d’Europa. In un certo senso si è concluso, potremmo dire, un lungo ciclo storico che aveva già avuto per sfondo lo stesso quadrilatero balcanico della Prima guerra scoppiata nel 1914: le antiche strade di Sarajevo, le forre della Bosnia-Erzegovina, le anse danubiane della Slavonia, i labirinti più tenebrosi di Belgrado. Fatalità ha voluto imprimere un sigillo sinistro perfino nel nome di battesimo del carnefice di Srebrenica. Rat» significa «guerra» in serbocroato e «Ratko» si potrebbe quindi tradurre, con una minima forzatura lessicale, come «beniamino della guerra».

Sono tanti i passaggi tremendi che vengono a mente in questo momento di svolta e, se vogliamo, anche di redenzione di una Serbia che a strappi intermittenti, a indugi, giravolte traumatiche, spesso impopolari, è riuscita infine a liberarsi dei tre maggiori responsabili del fratricidio inter-jugoslavo. Vale la pena di rievocare le tappe della tormentata e claudicante riconciliazione dei serbi con l’Europa e con se stessi. Nel 2000 l’arresto e la consegna al Tribunale Internazionale dell’Aja di Slobodan Miloševic, architetto del progetto caotico e sanguinario di espandere una Serbia immensa sulle macerie delle repubbliche e regioni jugoslave che anelavano all’indipendenza: i tentativi, via via falliti, di sottomettere o quantomeno sterilizzare la Slovenia, di amputare la Croazia, smembrare la Bosnia-Erzegovina, svuotare il Kosovo della prolifica maggioranza albanese, hanno finito per tramutare l’anacronistico sogno miloseviciano di una Grande Serbia in una Serbia minore, impoverita, devastata dai bombardamenti, isolata dall’Occidente e abbandonata in definitiva anche dall’alleata Russia.

Dopo la morte in un carcere olandese di Miloševic, è caduto nel 2008 in trappola ed è stato subito spedito all’Aja Radovan Karadzic, il guru della serbocrazia bosniaca, il Nerone maniacale della cittadella di Pale, pseudocapitale di un’autopraclamata repubblica allora dipendente da Belgrado: quattro anni d’assedio spietato di Sarajevo inerme, cecchinaggi indiscriminati, incendi, granate sui bazar, sugli alberghi, sulle moschee, il tutto con un costo di più di diecimila morti d’ogni età. Nei giorni dell’orrore il mediocre poeta e psichiatra Karadzic, contemplando con un cannocchiale militare le rovine della città sottostante, declamava dalla sua altura fortificata i versi del poema antiturco «Il serto della montagna» dell’omerico principe montenegrino Njegoš.

Oggi, con una prontezza di riflessi mediatica che quasi ricordava quella del presidente Obama nell’annunciare agli americani e al mondo l’uccisione di Osama bin Laden, il presidente serbo Boris Tadic ha voluto solennemente informare i serbi e soprattutto gli europei che l’ex capo dell’esercito sterminatore di Pale, l’uomo di mano di Karadzic, è stato catturato e identificato e sarà presto estradato all’Aja come criminale di guerra. Fatte le debite proporzioni tra l’annuncio di Obama e quello di Tadic, non si può sorvolare sul coraggio che il presidente Tadic, sia pure nel più dimesso quadro balcanico ed europeo, ha dimostrato nel denunciare in prima persona un evento d’impatto nazionale e internazionale che non tutti i serbi digeriranno facilmente. L’enorme durata della latitanza di Mladic nel cuore della Serbia profonda, protetto da forti coperture politiche, militari, ecclesiastiche, accademiche, testimonia il grado di rispetto e di muta popolarità di cui il boia di Srebrenica poteva ancora fruire fra tanta gente a lui vicina. Il Presidente ha calpestato un tabù leggendario: l’aureola dell’eroico combattente ortodosso contro gli infedeli islamici o, peggio, islamizzati.

L’entrata nell’Unione Europea, che giorni fa è stata presente a Belgrado con una visita di Barroso, responsabile della Commissione di Bruxelles, è la grossa moneta di scambio che il governo democratico della Serbia spera di ottenere come premio per il complicato e molto tardivo arresto di Mladic. Era il prezzo che Bruxelles esigeva da Belgrado per sbloccare le modalità, fino a ieri stagnanti, dell’accesso serbo (insieme o dopo quello croato) alle istituzioni comunitarie. Tadic, che da tempo si dichiara convinto europeista, non a caso ha sottolineato: «L’operazione che ha portato all’arresto rende il nostro Paese più sicuro e più credibile. Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona che questa pagina cruciale della storia serba si sia conclusa. Penso che per noi le porte dell’Europa siano ormai aperte».

Sono frasi, insieme morali e realistiche, che vorrebbero cancellare una storia ventennale di sangue e lacrime e rimuovere l’infausta memoria del triumvirato – Miloševic, Karadzic, Mladic – che ha inflitto alla Serbia solo umiliazioni, vergogna, povertà, ostracismi, nonché perdita di grandi territori come il Kosovo, sacri e germinali del passato serbo. Una cosa non dovrà mai essere dimenticata: che l’ultimo dei triumviri che verrà processato all’Aja per atti delittuosi contro l’umanità sarà chiamato a rendere conto del maggiore genocidio compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Gli ottomila musulmani maschi, da ragazzi di dodici anni ad anziani settantenni, trucidati in quattro giorni nel luglio 1995 sotto gli occhi di quattrocento soldati blu dell’Onu. Richard Holbrooke, onesto e duro tessitore degli accordi di Dayton, ha lasciato scritto prima di morire nel suo libro «To end a War»: «Per la sua vasta intensità, nulla, in quella guerra, è riuscito a eguagliare Srebrenica. Il suo nome è destinato a restare inciso nel lessico d’orrore delle guerre moderne, al pari di Lidice, Baby Yar e la foresta di Katyn».

Nei suoi diari intimi il capo dei massacratori, paffuto, allegro, col bicchiere in mano e il kepì alla francese dei generali monarchici serbi d’antan, scrive invece ch’egli, ordinando lo sterminio dei musulmani, raccomandava sempre ai suoi soldati: «Uccidete solo gli uomini. Le loro donne devono vivere per soffrire».

 

(courtesy MLH)

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