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29 dic – Rumici e ANVGD per comprendere il Novecento adriatico

di Kristjan Knez su La Voce del Popolo del 29 dicembre 2010

Nel 2008 è uscito il primo volume della collana “Chiudere il cerchio. Memorie giuliano-dalmate”, edito dall’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) di Gorizia e dalla Maling List “Histria”. In occasione della recente presentazione, avvenuta a Strugnano, abbiamo conversato con Guido Rumici, curatore dell’opera assieme a Olinto Mileta. L’ambizione del progetto è quella di parlare di un popolo diviso, ma che può benissimo ricomporsi e raccontare una serie di vicende umane, per lo più sconosciute. I due curatori hanno deciso di non precludere alcuna voce, da qualsiasi parte essa provenga, perché desiderano formare una sorta di coro in cui vi sia spazio tanto per l’esule che per il rimasto, per colui che sosteneva i fascisti o i partigiani o ancora i Tedeschi, o per chi, invece, non stava con nessuno, come pure per il vissuto delle donne, dei bambini e così via.

La collana includerà, anche nei prossimi volumi, un insieme quanto più vario di ricordi, accogliendo anche le storie personali di Sloveni e Croati, in modo da proporre anche il punto di vista proveniente dall’“altra parte”. E da questo lato possiamo dire che l’iniziativa si presenta decisamente innovativa. Per molti aspetti, infatti, infrange quelle barriere che per lunghi decenni hanno impedito di guardare e di confrontarsi con gli “altri”. Benché sia molto arduo o meglio impossibile giungere a quella che viene chiamata la “memoria condivisa”, dato che si vanno a toccare pagine di storia dolorose e laceranti per le comunità interessate, è però possibile avvicinare e proporre le sofferenze, le paure, le speranze e le illusioni provenienti anche dall’altra parte dello steccato.

Il Novecento, come ben sappiamo, è stato il secolo delle tragedie. In questo primo volume però non ci sono solo i lutti e le pagine dolorose, anzi, ampio spazio è dedicato anche alle vicende piacevoli. Come sottolinea lo stesso Rumici: “Se è vero che queste zone di confine hanno avuto dei lunghi periodi di tensione, non dimentichiamoci che nelle stesse vi fu anche molta collaborazione e reciproca comprensione tra Italiani, Sloveni e Croati. Perciò è giusto dire che qui non vi fu soltanto sangue, ma anche matrimoni misti, famiglie che vissero in armonia e che vi furono rapporti di livello normalissimo”. Attraverso questi tasselli di vita si auspica perciò di stimolare l’interesse, non soltanto in coloro che quelle cose le hanno vissute ma anche nei giovani.”

Da questi racconti di vita vissuta emerge un’immagine diversa dell’Istria, che spesso si tende a celare e quindi a non ricordare. Cosa emerge da queste testimonianze?

Buona parte degli Istriani ha una perfetta conoscenza del paese in cui vissero ma spesso non sa ciò che avveniva a cinquanta o anche a trenta chilometri di distanza. La storia dell’Istria è completamente diversa da quella di Fiume o della Dalmazia e così vale anche per Trieste o per Gorizia. Seppure fossero dei mondi diversi bisogna dire che coesistevano perfettamente all’epoca. Nonostante queste differenze possiamo dire che tra Grado e le Bocche di Cattaro esisteva un mondo unico, fatto di relazioni, di commerci, di società, di collaborazioni, in cui anche la borghesia era unica – seppure italiana, slovena e croata –, basti pensare che il linguaggio degli scambi era lo stesso. Le due guerre hanno spezzato quegli intrecci e divelto in maniera disastrosa quella dimensione.”

Tu dicevi che il discorso della memoria condivisa è in realtà molto retorico e pertanto sia doveroso seguire altre strade. Cosa ne pensi?

Ritengo sia proprio così. Chi ha fatto il partigiano non può essere solidale e condividere la memoria con chi era con i Tedeschi, la Milizia o la X MAS; questo è impossibile. Però conoscere almeno il punto di vista degli altri fa capire almeno che la paura, la fame e la miseria erano comuni, per esempio. A questo proposito gradirei riportare un fatto accaduto a due fratelli di Pisino i quali, nel 1943, presero strade diverse. Il padre fu fucilato dai nazisti, i due figli si divisero: uno se ne andò con i fascisti, l’altro con i partigiani. Ma erano già d’accordo che alla fine della guerra chi avrebbe vinto avrebbe salvato l’altro.

Si dissero: ‘Combattiamoci, ma quando ci sarà la resa dei conti aiutiamoci!’. Questo può sembrare retorico, ma a me fa venire i brividi, perché comunque emerge il sentimento, vuol dire che l’essere umano, tutto sommato, molte volte sa anche intervenire per salvare le vite dei propri cari. Nel terzo volume, invece, vi sarà la storia di un mio compaesano di Grado il quale, nel 1945, da acceso comunista se ne andava in giro con la stella rossa e faceva attività politica. Ebbene, lui andò a Prestrane (in sloveno Prestanek, vicino a Postumia, n.d.r.), in un campo di concentramento per i soldati della R.S.I., con dei documenti falsi a salvare un suo amico d’infanzia. Esclamò “Questo qua lo copemo noi!”. Lo portò a casa, lo tenne nascosto per due mesi e quando le acque si calmarono gli disse: ‘Va fora, paghime de bever co te me vedi, perché qua no copemo nissun!’. Questo dimostra chiaramente che talvolta l’amicizia può essere di gran lunga più forte della diversità politica. E allora perché non raccontare queste cose? È giusto raccontarle: abbiamo visto decine di film di guerra, di gente che si ammazzava e allora perché non raccontare ogni tanto anche qualche pagina a lieto fine?”

Nei prossimi volumi so che includerete anche le testimonianze di Croati e Sloveni autoctoni. Questo approccio dimostra senz’altro un’apertura da parte vostra, dato che spesso ognuno rimane barricato dietro alle proprie posizioni. È il segno che qualcosa sta cambiando?

Io ho avuto ed ho la fortuna che l’editore di questi volumi sia effettivamente molto aperto dal punto di vista intellettuale. Voglio rendere merito all’ANVGD di Gorizia e al suo presidente, Rodolfo Ziberna, che è veramente molto aperto ed è pertanto d’accordo con la linea editoriale che gli ho proposto e lui l’ha sposata in pieno. Semmai il mio problema è che, non conoscendo né lo sloveno né il croato, faccio fatica a relazionarmi con quelle persone, a meno che qualcuno non mi aiuti con la traduzione, cosa che ho fatto in alcuni casi. Però da parte mia e di Olinto Mileta c’è la massima volontà di aprire a tutte le componenti del territorio.”

Il titolo della collana “Chiudere il cerchio” per l’appunto è un tentativo di raccogliere le memorie e di guardare anche in avanti?

Il nostro intento è quello di raccogliere storie che possano ravvicinare e non soltanto separare. Dopo tanti anni credo sia giusto giungere ad una conclusione, ad una sintesi di tante memorie raccolte e quindi ‘Chiudere il cerchio’ vuol dire anche cercare di ricostruire il mosaico di un popolo che si è frantumato. E allora è importante raccontare le cose che possono unire, come le comuni sofferenze del tempo di guerra, che hanno vessato tutte la popolazione civile, indipendentemente dall’appartenenza nazionale o politica e ideologica.”

Il volume contiene testimonianze provenienti da ogni angolo del globo. Parlaci di questa caratteristica.

È vero: questo libro ed i prossimi volumi contengono racconti che ci sono giunti dal Canada, dall’Argentina, dall’Australia, dagli Stati Uniti, dall’Uruguay, ecc. Abbiamo gente nostra, nata in questa regione, che ci scrive attraverso la posta elettronica e che racconta l’esperienza di quella volta. A me tutto questo fa commuovere, perché queste persone sono felici di mandarci questi scritti. Insomma è come un mondo che si sta un po’ ricomponendo anche se oggi abita lontano; questa almeno è una nostra speranza.”

Grazie alla rete i confini sono stati abbattuti, i collegamenti avvengono in tempo reale e tutto questo ha favorito senz’altro i rapporti. Come contattate le persone e in che modo avviene la raccolta delle testimonianze?

Siamo in due a condividere questa fatica. Le strade sono diverse: Olinto Mileta, che abita a Torino, lavora soprattutto con il computer, lui ha i contatti con mezzo mondo attraverso la rete e grazie alla Mailing List Histria che da sempre incentiva questo tipo di raccolta di memorie. Io, che abito invece a Grado, vengo spesso direttamente in Istria e mi sposto in macchina, passando in diverse Comunità degli Italiani o presso amici istriani dove faccio interviste e raccolgo testimonianze. D’estate poi, durante le vacanze, vado in giro in località sempre diverse, dall’Istria alla Dalmazia meridionale, fino alle porte dell’Albania, e approfitto per fare nuove conoscenze, busso alle porte, mi presento e chiedo collaborazione, e spesso trovo qualcuno con cui si parla volentieri. Anche se non sempre – specialmente qua – la collaborazione iniziale sfocia in un racconto definito. La gente infatti racconta con piacere le proprie storie, però l’idea che sia poi pubblicata non a tutti piace, e allora mi chiedono di usare l’anonimato.”

Come ti spieghi questo tipo di reticenza?

Spesso mi sono chiesto come mai molta gente non voglia raccontare, spendendo il proprio nome in pubblico. Io ho due tipi di risposte: certe volte abbiamo a che fare con la timidezza e la ritrosia personale, altre volte c’è invece la paura, perché chi si è scottato cinquant’anni fa, ed ha avuto dei problemi personali o in famiglia, ancora adesso magari vive con un po’ di inquietudine il fatto di esporsi. E bisogna avere rispetto, per carità, di questi sentimenti, perché ognuno ha vissuto a suo modo le vicende del passato. Oppure si tende a non svelare le cose per non imbarazzare o addolorare i familiari. Spesso il nonno o il padre non vogliono che il figlio possa risentire del dolore che il vecchio ha subìto e che ha ancora dentro. È una forma di protezione verso i giovani, frutto dell’affetto di chi ha visto il male e spera non si ripresenti. Come se si volesse spezzare una catena di dolore.”

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