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Zandel racconta l’Istria dei ”vinti” (Il Piccolo 11 feb)

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Non è trascorso un secolo, ma appena 23 anni. Eppure, a rileggere oggi quelle parole suonano lunari. Nel 1987, quando la casa editrice Rusconi pubblicò il romanzo ”Una storia istriana” di Diego Zandel, sul giornale ”L’Arena di Pola” uscì un’articolo che spiegava perchè, secondo il direttore di allora, era inutile recensire il libro: «Non è un’Istria che ci appartiene».

Che significato aveva quel rifiuto di recensire il romanzo di uno scrittore figlio di profughi fiumani? Lo spiega Diego Zandel, nato nel campo di Servigliano e cresciuto nel Villaggio giulano-dalmata di Roma, in una lunga introduzione alla nuova versione di quel romanzo. Adesso si intitola ”Il figlio perduto. La mia storia dalla terra d’Istria”, lo pubblica la casa editrice Alacràn (pagg. 126, euro 13,50) e non è esattamente una semplice riedizione. L’autore, infatti, ha cambiato alcuni aspetti della narrazione, tra cui il nome del protagonista, arricchendola con un capitolo in più.

L’imbarazzo provato da qualcuno nella lettura del libro, oltre vent’anni fa, deriva dall’incapacità di aprire il proprio orizzonte. Perché Zandel, nel ”Figlio perduto”, va a ripescare una storia vera dell’Istria croata della zona di Albona. Dà voce, insomma, a una parte della famiglia del padre, che non era di etnia e di lingua italiana. Ma per questo dev’essere considerata meno istriana, si chiede ancora oggi lo scrittore? «In quell’Istria le lingue si mescolavano. E, talora, anche le etnie».

Zandel, che di libri ne ha scritti parecchi, non ha mai smesso di amare la sua terra d’origine. Tanto da mettere mano a un nuovo romanzo, intitolato ”I testimoni muti”, che dovrebbe uscire l’anno prossimo. Per far capire che chi continuerà a negare la storia multietnica dell’Istria e le radici di chi, come lui, ha scoperto di avere nelle vene sangue italiano, croato, sloveno e addirittura austriaco («come appare da un documento che fissa le origini della mia famiglia in una ragazza madre che ha abbandonato, dopo averlo battezzato nella chiesa di San Giacomo Apostolo a Trieste, il mio bisnonno Carlo»), sarà capace di seminare soltanto odio. Facendo il gioco dei nazionalisti di una o dell’altra parte.

A chi lo leggerà, ”Il figlio perduto” apparirà fin dalle prime pagine come uno libro scavato nel granito del dolore e della memoria. Un piccolo gioiello che la critica ha trascurato forse per pigrizia, forse per quell’insensibilità che ha reso invisibili certe vicende maturate in queste terre. A ingigantire, capitolo dopo capitolo, è il personaggio che nella nuova versione Zandel ha voluto chiamare Sime. Un fratello del nonno dell’autore, un ex minatore sposato a Giovanna, ma rimasto per lunghi anni senza la gioia di un figlio. Un bel giorno, decise di chiedere proprio a quel fratello, che invece di ragazzi per casa ne aveva parecchi, di cedergliene uno.

Prende forma a quel punto un intreccio di sentimenti, di risentimenti, di ansie e di paure, che sembrano presi di peso da quel serbatoio di storie che amava raccontare Giovanni Verga. Vicende di ”vinti”, di personaggi che non riescono a mettere mai in equilibrio la bilancia della vita, che sono costretti a nuotare sempre controcorrente. Quando Sime porta a casa il ragazzino Giacomo si illude di aprire un capitolo nuovo della propria esistenza. Prova a convincere se stesso e la moglie che, a partire da quel momento, la loro potrebbe diventare una vera famiglia.

Ma l’amore non si compera a etti. E un figlio non diventa tale solo perché un giorno il suo vero padre decide di affidarlo a un nuovo padre, a un uomo che lui fino al giorno prima ha chiamato zio. Le giornate di Giacomo, in quell’angolo d’Istria, diventano ogni giorno più tetre, più malinconiche. E quando il fratello Tonci, in un impeto d’ira per essere stato scoperto ad amoreggiare tra l’erba con una ragazzina, gli rivela che lui sì, è stato venduto a Sime, il ”figlio perduto” non trova più una ragione per vivere. Si impicca all’albero dietro casa senza lasciare nemmeno un messaggio d’addio.

Potrebbe calare il sipario, a quel punto, sulla vita di Sime. Se non gli fosse concesso un secondo tempo. L’amore di Mariza, trentenne vedova dal fascino terragno, che resta quasi subito incinta di lui. E sarebbe disposta perfino a cedergli il figlio, una volta nato, sparendo dalla sua vita. Per lasciare che lui e la moglie Giovanna lo crescano, se lo godano. Ma quell’uomo che la vita ha preso molto spesso a sberle non è così incarognito da non sentire le parole che gli sussurra il cuore. Decide di andarsene di casa, di rompere il matrimonio, per costruire un nuovo nido con Mariza. In attesa del bambino.

Non basta una nuova vita per mettere in fuga le tenebre che si addensano attorno a Sime. Quando Giovanna muore sola e disperata, uno dei suoi fratelli promette al marito che l’ha lasciata sola: ”Prima che tu veda tuo figlio, io ti ucciderò». Le minacce non lo spaventano, lui deve finir di costruire la sua casa. Neanche una dirompente piena del fiume, che rischia di distruggere i muri tirati su con grande fatica, lo fermano. Ma il Destino ha deciso di presentargli il conto proprio quando potrebbe concedergli un raggio di felicità. E il sipario, questa volta, cala per davvero.

Scritto con la misura e la ruvidità che si addice a una trama disperata come questa, ”Il figlio perduto” racconta una microstoria presa dalla storia di un angolo d’Europa ”multiculturale, multilinguistico e multietnico”, come scrive Guido Crainz nella postfazione. E forse adesso, questo bel romanzo di Diego Zandel verrà recensito come merita. Senza pregiudizi di sorta.

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