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Velikic: il sogno inquieto di ”Via Pola” (Il Piccolo 24 mar)

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Per più di vent’anni la traduzione di ”Via Pola” è rimasta chiusa in un armadio. A casa di Ljiljana Avirovic, che nel libro di Dragan Velikic ha creduto subito. E nonostante l’indifferenza di tanti, lei, che ha il merito di aver fatto conoscere grandi autori come Miljenko Jergovic ai lettori italiani, come Claudio Magris a quelli croati, non si è arresa. Fino a quando ha trovato un editore disposto a scommettere sul romanzo dello scrittore che fa l’ambasciatore serbo a Vienna. E che è sempre stato in rotta di collisione con il regime di Slobodan Milosevic.

Così adesso, a distanza di 21 anni, finalmente ”Via Pola” arriva nelle librerie. Lo distribuirà, da domani, l’editore Zandonai (pagg. 151, euro 15) di Rovereto, che dimostra un particolare interesse soprattutto per le nuove voci della letteratura serba, croata, slovena e più in generale dell’area balcanica. A firmare la traduzione, ovviamente, è Lijljana Avirovic, mentre la prefazione è di Claudio Magris.

Il libro di Dragan Velikic appare, secondo le parole di Magris, come «una discesa nei gorghi di quella storia stratificata, spesso intrisa di grumi di sangue rappreso – versato per secoli di violenze – e di follia, di mali oscuri». Ma, soprattutto, costringe il lettore a lasciare in un angolino le sue certezze, ad avventurarsi in una navigazione a vista, dove il profilo della terraferma è soltanto una lontanissima fata morgana. Un miraggio che si ripresenta e si dissolve via via che scorrono le pagine.

Convinto che «l’arte non è un obiettivo ma un processo», Velikic, nato a Belgrado nel 1953, è vissuto a lungo da bambino nella città istriana di Pola. Autore di numerosi romanzi e racconti, è praticamente sconosciuto al lettore italiano, se si esclude quel suo testo intitolato ”Belgrado” che Nicole Janigro ha inserito nell’antologia di scrittori serbi da lei curata, intitolata ”Casablanca serba” e pubblicata da Feltrinelli nel 2003.

”Via Pola” parte da un approdo preciso, concreto: la carta d’identità di Bruno Gašparini. Un medico specialista, uno psichiatra di Pola. Un tipo di cui si conosce il nome del padre, il segno zodiacale, il gruppo sanguigno, il tipo di donna che preferisce, perfino il colore che più gli piace. Eppure quell’uomo, che ci appare così definito, così concreto, finisce per sgusciarci presto tra le mani. Per perdersi. Il suo equilibrio psichico si incrina e lui diventa prigioniero del caleidoscopio di storie, di deliri e di intrecci che si sommano proprio in quella città.

Per accostarsi a Bruno «il momento più favorevole è l’attimo prima dell’alba, quando il sonno è profondo e il ponte abbastanza resistente». L’avvertimento di Velikic è preciso. Per capire questo libro, per lasciarsi affascinare dal suo girovagare joyciano tra le voci e i sogni, tra i destini e i pettegolezzi, tra gli amori e i disamori, bisogna essere pronti a lasciarsi trascinare dentro un vortice onirico eppure concretissimo. Dove, dietro ogni nome, si nasconde un altro nome. Dietro ogni ammiccamento, ogni riferimento, ogni mascheramento, si cela un riferimento preciso.

Il padrone dei sogni, in ”Via Pola”, non concede a Bruno, allo psichiatra abituato a scrutare dentro il cervello, dentro l’anima degli altri, di tracciare un confine netto tra il mondo onirico e la realtà. Finisce così che Gašparini galleggia in un presente che, dentro di sé, accoglie il ricordo del passato e l’ansia del futuro. Dove Pola racconta la caccia agli italiani, la fuga dall’Istria, ma anche il tempo del regime comunista, il terrore di finire nell’Isola d’oro, a Goli Otok, da cui pochissimi facevano ritorno. Dove si può ricordare che l’arcipelago di Brioni, prima che diventasse uno dei palcoscenici dorati dei rituali titini, era dominato dalle paludi e dalla malaria. Nessuno era pronto a investire i suoi soldi lì, a scommettere su quel futuro paradiso terrestre.

Come uno spirito guida, come un’ombra che cela il suo volto e lo rivela soltanto per allusioni, per indizi, sul romanzo di Velikic giganteggia il ricordo di James Joyce. Quello Zois che ha saputo scardinare i rituali della letteratura scrivendo ”Ulisse”, ”Finnegans Wake”. Rinunciando alla certezza di una sintassi precisa, di un fantasticare delimitato da confini certi. Quello Zois che scriveva, quando era capitato a vivere a Pola: «Odio questo paese cattolico dalle mille razze e dalle mille lingue, sul quale spadroneggia il casato più corrotto d’Europa». Eppure proprio lui, con il suo inquieto girovagare, avrebbe tracciato sulla carta geografica l’itinerario che Velikic definisce «per gente dall’animo sensibile». Da Dublino a Pola, via Zurigo e Trieste («un calderone in cui si cuoce carne di tutti i tipi»). Transito per nomadi senza meta.

»Dal destino non ci possiamo salvare», conviene Bruno tra sé e sé, mentre i sogni si sovrappongono al delirio. E quando i commerci carnali sempre estremi, sempre affrettati, non bastano più, quando il ricordo delle ore vissute intensamente lascia soltanto uno strascico di ricordi (come quello della Serenissima Repubblica di Venezia che dopo ogni epidemia di peste iniettava nel corpo di Pola, la città devastata più volte dai cavalieri dell’apocalisse, la città in via di dissoluzione, «il fresco sangue dei morlacchi che con il tempo si annacqua nell’aria malarica delle pozzanghere»), allora riprendono forma i fantasmi di certi ingombranti antenati. Di Casanova, giunto a bordo della diligenza da Orsera. Di Ivan Cankar che, accusando il vino di essere ”debole” e le ragazze ”sciamannate”, sospirava: «Qui mi annoio molto». Di Stendhal, che annotava gli aspetti più prosaici: «Non esisteva l’illuminazione stradale e il letame era così alto da non poterci passare senza gli stivali».

In questo maesltrom di voci, di storie, di confessioni che i pazienti regalano a Bruno nel vecchio palazzo Orlando, diventato manicomio, lo psichiatra finisce per smarrire il senso del tempo e dello spazio. E si ritrova calato nei panni di un nomade che, pur senza muoversi da casa, riesce a scalare il muro che lo separa dagli orrori della Storia, dalle catastrofi che hanno segnato il divenire dell’uomo. Dall’oscuro richiamo delle ideologuie, delle passioni, delle illusioni rivoluzionarie.

Sotto gli occhi del lettore, ”Via Pola” perde piano piano i connotati del romanzo. E diventa un flusso di coscienza, un incantesimo capace di intrecciare il nostro destino con quello di chi ci ha preceduto. Un pauroso, fascinoso viaggio nella vertigine.

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