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Slovenia: integrazione militare senza vantaggi all’Italia (Il Piccolo 09 ago)

di PIER PAOLO GAROFALO

LUBIANA Un esercito piccolo ma dinamico, ormai completamente integrato nella Nato, una leadership giovane e divisa sulle grandi linee strategiche, una capacità di capitalizzare in termini non solo d’immagine gli impegni internazionali a fianco degli alleati, un apparato non immune, come altrove, da scandali grandi e piccoli. È la ”fotografia” delle Forze armate slovene (”Slovenska Vojska”), il Corpo militare nato dalle ceneri di quella Difesa territoriale slovena (”Territorialna Obramba”) che opponendosi all’allora Armata popolare jugoslava contribuì all’indipendenza di Lubiana dalla Repubblica federale, come avvenne quasi ”in fotocopia” per la Croazia.

L’Esercito sloveno, che ingloba Marina, Aeronautica e Difesa aerea, è oggi costituito da circa 9.200 unità tra uomini in servizio attivo (7.600) e nella Riserva (1.600). Sono una frazione di quei 76mila sloveni in armi, tra Difesa territoriale, polizia e ranghi federali, che si contavano al dissolvimento della nazione titina. E molti degli attuali vertici, ora a cavallo della cinquantina, hanno combattuto nelle file indipendentiste nel 1991. È il caso del brigadier generale Branimir Furlan, decorato per i fatti di quell’epoca. Tirato in ballo nello scandalo dei blindati ”Patria”, i blindati finlandesi ora costruiti su licenza dalla Slovenia, aveva presentato le dimissioni, sembra in contrasto con il ministro della Difesa Ljubica Jelusic.

Nessuno obietta sulla validità tecnica dei pesanti ruotati scandinavi: in Afghanistan, nelle file dell’esercito polacco si sono guadagnati la fiducia degli europei e conquistato una grande fama tra i talebani. Tanto che quando gli ”insorti” si vedono davanti i ”diavoli verdi”, dal colore della mimetizzazione dei mezzi di Varsavia, desistono per principio dall’attacco. Sembra però che i pezzi costruiti in Slovenia nelle valutazioni al poligono in patria abbiano rivelato la necessità di affinamenti tecnici.

La nomina, a luglio, di Furlan a capo delle Forze operative, rette fino ad allora da un generale di grado più elevato, Alan Geder, dovrebbe avere fatto rientrare il dissidio.

Dissidio che, in termini strategico-concettuali, alberga nello Stato maggiore sloveno anche sulla scelta del ”partner d’elezione”. Una vicenda che coinvolge l’Italia direttamente. Da anni la ”Slovenska Vojska” opera, specie in ambito Ue e Nato, con le nostre Forze armate.

Ma gli Stati Uniti ”corteggiano” serratamente l’esercito di Lubiana, forti di risorse finanziarie e tecnologiche sempre notevoli nonostante la crisi. L’Ufficio di cooperazione militare Usa destina alla Slovenia un milione di dollari l’anno, facilitando anche la partecipazione ai propri corsi di personale straniero. Undici istruttori della Riserva del Colorado stanno istruendo i militari sloveni che da ottobre, nell’ambito del Comando regionale Ovest di Herat, a guida italiana, costituiranno un nuovo Omlt, i Team di addestramento e collegamento che supportano le forze di sicurezza del Paese asiatico. E se in passato un contingente della ”Vojska” per rimpatriare a fine missione ha dovuto ”chiedere un passaggio” agli statunitensi, di regola questo usufruisce dei vettori militari italiani o finanziati da Roma.

Ma l’integrazione, in operazioni, dei reparti sloveni a quelli italiani finora ha portato benefici solo a Lubiana, con una riduzione delle spese accompagnata da un’accorta campagna di relazioni pubbliche tra gli alleati, per ottenere visibilità a questo punto a bassa costo. Un ”favore” che, in termini di acquisizioni di armi ed equipaggiamenti, la Slovenia non ricambia all’Italia.

Se la crisi internazionale ha di fatto bloccato l’acquisto di due velivoli militari da trasporto C27j dell’Alenia, tutta la campagna-acquisti slovena desta sconcerto. In barba a ogni logica di standardizzazione e logistica, l’esercito est europeo ha a esempio adottato un fucile mitragliatore prodotto dalla belga Fn anziché dall’italiana Beretta mentre il materiale di difesa Nbc (nucleare, biologica e chimica) è stato comprato da aziende della Turchia.

A livello strategico nello Stato maggiore un importante dibattito resta aperto: meglio ”affiliarsi” agli americani, più ricchi, più importanti, più ”combattenti” o restare nell’alveo degli italiani, riconosciuti ”maestri” nelle operazioni di peace-keeping e che, soprattutto, muoiono di meno? L’estate afgana, con la consueta recrudescenza di scontri, potrebbe fornire una risposta.

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