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Ricordo e verità dopo il luingo silenzio (Mess. Veneto 13 mar)

di PAOLO MEDEOSSI

Udine avrà un luogo in cui onorare le vittime delle foibe. Questo accade a 65 anni da quegli eventi tragici. La sola enorme distanza di tempo basterebbe già a dare atto alla giunta Honsell di aver preso la decisione.

Certo – come hanno informato le cronache delle ultime settimane – non è stato facile arrivare a una scelta, ma alla fine il risultato, pur sofferto, è stato raggiunto.

C'è da chiedersi perché ci sia voluto tanto. Qui come altrove del resto visto che le iniziative in Italia a ricordo di queste vicende sono cominciate appena nel 2004 grazie a una legge nazionale. In proposito esiste tutta una letteratura storica e giornalistica che spiega come su certe fasi del passato l'analisi richieda decenni di confronto e dibattito. Basta pensare a cosa succede con la prima guerra mondiale, i cui esiti e sviluppi erano stati imbalsamati in versioni ufficiali che parevano inattaccabili e invece l'opera di studiosi pazienti dimostra ora che si può dare una lettura ben diversa su fatti ormai ampiamente scontati. Non cambia la sostanza finale, ma il contesto sì, con effetti sorprendenti.

Il caso delle foibe è straziante e profondamente lacerante per le coscienze, come tutto quello che è accaduto nell'ultimo secolo sul tormentato confine orientale dove vinti e vincitori si sono succeduti, dove hanno infierito a turno e dove il clima della cortina di ferro ha congelato a lungo ogni tipo di ricerca di una verità condivisibile. La vicenda chiama in causa la politica che rappresenta la sintesi di tutto e che spesso inevitabilmente strumentalizza cause e conseguenze partendo dal rispettivo punto di vista, che sia di destra, di sinistra o di centro. Un po' per tutto questo, sulle vittime delle foibe non si è finora arrivati a un ragionamento completo e senza ombre, che tenga conto di tutte le conoscenze, ma anche che non neghi a priori quanto avvenne nel Goriziano, a Trieste, in Slovenia, in Istria.

Questi sono discorsi che devono ricordare in primo luogo lo strazio delle famiglie che per decenni hanno sofferto in silenzio, non sapendo che fine avessero fatto i propri cari, spariti nel nulla con la deportazione. Gettati e uccisi nelle foibe carsiche oppure finiti in qualche campo di concentramento jugoslavo?

Udine conosce bene queste vicende perché nel dopoguerra fu uno dei primi luoghi di raccolta in cui arrivavano gli esuli in fuga dalle zone controllate dai titini, ma nell'occhio del ciclone si trovò Gorizia dove l'inferno cominciò il primo maggio 1945, a guerra ormai finita. Basta andare nel suo parco della Rimembranza e fermarsi davanti alla lapide che reca i quasi 700 nomi delle donne e degli uomini spariti fino al 12 giugno. Fra loro tanti militari, tanti poliziotti, tanti carabinieri, tanti impiegati e funzionari pubblici, tanti goriziani, in una città che allora aveva circa 30 mila abitanti. Tra quei nomi ci sono anche i componenti del Comitato di liberazione nazionale, ci sono responsabili di enti economici, ci sono i venti impiegati del municipio e in particolare quelli dell'anagrafe, custodi degli elenchi che dimostravano l'italianità di Gorizia. E fra i nomi ci sono storie agghiaccianti come quella di un ex internato in Germania arrestato dai partigiani slavi nel maggio del 1945 proprio mentre rientrava a casa e sperava di essere ormai in salvo. Alle porte della città sparì e di lui non si è saputo nulla.

Questa delle vittime delle foibe e delle deportazioni è uno dei capitoli più tragici nel nostro Novecento, anche per quello che l'ha preceduto (con la violenza fascista in Jugoslavia) e che l'ha seguito (i decenni di reciproco silenzio per non incrinare i rapporti fra Italia e Jugoslavia sulla frontiera cosiddetta più aperta d'Europa). Ma è una storia che ha straziato e dilaniato sul piano personale le famiglie, all'interno delle quali si sono vissute durissime contrapposizioni su questi temi, fra convinzioni politiche differenti e affetti condivisi, come quella che emerge in un interessante libro pubblicato dalla Mursia nel 2001, dal titolo Prigioniero di Tito 1945-1946. Un bersagliere nei campi di concentramento jugoslavi. Lo ha scritto Lionello Rossi Kobau, monfalconese, volontario nell'esercito della Repubblica sociale italiana. È il padre dell'attore Paolo Rossi, che nel libro pubblica una breve postfazione nella quale dice: «Io e mio padre avevamo idee politiche molto diverse. Sarà importante per voi? Quel che mi preme è altro: questa è la storia di un uomo che nella sua gioventù visse, agì e subì la Storia e poi riuscì a raccontarlo. Da una parte giù in basso c'è il narrare degli uomini comuni, dall'altra, più in alto, il Potere che si racconta a se stesso. Il Potere nel corso del tempo muta forme e comportamenti ma non sostanza. Con la verità storica può permettersi tutto e si sente eterno come certi capocomici che rimaneggiano i loro canovacci e ne sanno entrare e uscire a loro comando… Mio padre, invece, qui racconta la sua vita ed è una storia, questa sì, che vi riguarda».

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