Via Capodistria, piazza Carnaro, via Parenzo, via Cherso, via Lussinpiccolo. E poi via Parenzo, piazza Fiume, viale Pola, via Zara e piazza Istria.
Impresse nella toponomastica della capitale le cicatrici di luoghi su cui non sventola più la bandiera italiana, ricordi di luoghi che, forse più di altri, sono stati segnati dal poderoso e irreversibile fluire della storia. Roma è forse, insieme a Trieste, la grande città nella quale più è viva l’attenzione per la Giornata del ricordo. E non solo perché le istituzioni, alle quali la legge del 2004 assegna il compito di ricordare l’esodo e l’abbandono dei confini pre-bellici, hanno sede sui sette colli.
«Ma anche perché Roma, nella codifica ufficiale dei quartieri urbani e suburbani, è l’unica che ha intitolato una zona del suo territorio, quella più meridionale, a ricordo di quella storia. Il quartiere 31 si chiama effettivamente ancora oggi “Giuliano – Dalmata”». Lo spiega Marino Micich, direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, che sorge a due passi, per l’appunto, da Piazza Giuliani e Dalmati. Un nome non solo commemorativo, ma radicato nella storia della città. Alle fine della guerra, infatti, le popolazioni istriane e dalmate che subirono l’esodo e arrivarono a Roma si stabilirono nei capannoni che erano stati l’alloggio di fortuna degli operai impiegati nell’allestimento dell’Esposizione Universale Roma del 1942, che mai fu realizzata.
Un quartiere che oggi ospita circa 30.000 persone, nel cuore del quale sorge un vero e proprio mausoleo di documenti storici e archivistici. «Abbiamo raccolto nel corso degli anni circa seimila volumi sull’esodo, oltre ad un’enorme quantità di materiali d’archivio – spiega Micich – in italiano, ma anche in croato, serbo, ungherese e tedesco». Dal 1964, grazie agli investimenti e ai sacrifici degli esuli, l’Archivio è il luogo per eccellenza di conservazione di una memoria storica propria del confine orientale, ma che ha contaminato nel corso degli anni la storia della capitale, mescolandosi al tessuto urbano cittadino.
Solo a partire dal 2004 questo luogo, dopo anni, è stato riconosciuto come ente da tutelare da parte dello Stato, e ha iniziato a ricevere alcuni aiuti per la gestione delle spese ordinarie. «Ma tutto quello che vede è stato costruito e preservato grazie allo sforzo degli esuli. E basta».
«A Roma la presenza e i riferimenti storici di Venezia Giulia e Dalmazia sono innumerevoli – continua Micich – Abbiamo il quartiere Giuliano e Dalmata, ma si pensi anche a tutte le vie e le piazze intitolate a quei luoghi. C’è una presenza molto significativa anche a prescindere dalla giornata del Ricordo, già a partire dal 1947, quando i primi esuli si vennero a stabilire nel villaggio operaio dell’Eur. Negli anni ’60 quell’insediamento, ancora oggi chiamato “Villaggio Giuliano Dalmata”, ha dato il nome all’intero quartiere».
Furono in duemila i prima ad arrivare, circa quattrocento famiglie. Se ne sono contati nel tempo circa novemila, escludendo figli e nipoti. «Questi ultimi non sempre vengono ad abitare nelle case dei genitori. Per cui la composizione del quartiere si sta pian piano modificando». Quello che rimarrà a ricordo è il nome: «In nessun altra città c’è un quartiere che porta questo nome. Anche quando gli ultimi esuli saranno morti, rimarrà questa dizione. È un fatto importante, anche considerato lo sradicamento e il memoricidio che hanno subito le popolazioni di quelle terre».
Anche per questo è stata fondamentale per tutte le comunità degli esuli la legge del 2004, che ha istituzionalizzato il 10 febbraio come giornata nazionale in ricordo non solo delle foibe, come spesso si pensa, ma anche dell’esodo. «La giornata del Ricordo è stata una svolta – sottolinea Micich – Finalmente le amministrazioni dedicano uno spazio ad una vicenda storica che è culminata con le tragedie che oggi bene o male si conoscono. La legge ha permesso a molti operatori culturali di promuovere iniziative su questi temi».
C’è dunque sia una componente di giustizia nei confronti delle tante popolazioni dimenticate per molti anni per «ragioni di carattere ideologico e convenienze politiche», come ha ricordato il presidente Napolitano, ma anche «l’istituzionalizzazione di una storia che avrebbe in qualche modo corso il rischio di essere dimenticata». Accolta con favore, ma anche «con il rammarico che per moltissimi anni questa vicenda sia stata taciuta. Fino al 2004 nei testi di scuola queste vicende, quelle del confine orientale, non erano minimamente citate. È stato un gesto di civiltà». Civiltà, dunque, non politica, anche se l’estensore è stato l’onorevole Menia, all’epoca tra le fila di Alleanza Nazionale, oggi transitato in Futuro e Libertà. «I giuliani e dalmati hanno accolto favorevolmente l’approvazione della legge. Il Parlamento si è espresso quasi all’unanimità. È stato promosso dal centrodestra, ma fu accolto anche dagli allora Ds. Violante si spese per la sua approvazione, venne a chiedere proprio nel nostro quartiere a chiedere scusa per i tanti anni di silenzio».
Un progetto così condiviso non poteva che essere gradito ai tanti esuli, restii a farsi strumentalizzare politicamente ma pronti ad appoggiare chi, dopo tanti anni, si è proposto di dargli cittadinanza. «Gli unici a votare contro in Parlamento sono stati contrari in 15, su un totale di 517 presenti. Rifondazione, Comunisti italiani e una parte dei Verdi sono stati i soli ad opporsi».
Rimane un filo di amarezza: «Un gesto fondamentale, ma una legge non ripaga i sacrifici di un popolo e di tutta quella gente che è morta nella dimenticanza più totale. Se l’Italia si fosse ricordata prima, forse non sarebbe stato un male».
Pietro Salvatori