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Quarantotti Gambini, la sua dolente Primavera a Trieste nel 70.mo della Liberazione (20apr15)

 

Ricorre questo mese di aprile il cinquantenario della improvvisa e prematura scomparsa di Pier Antonio Quarantotti Gambini, scrittore tra i più prestigiosi dell’area giuliana, nato a Pisino d’Istria da un’antica famiglia di sentimenti italiani il 23 febbraio 1910 e mancato a Venezia nello stesso mese del 1965. Trascorse l’infanzia tra l’Istria e Trieste, compì gli studi medi a Capodistria, si laureò in Legge a Torino nel 1937. A Trieste, dove si era stabilito nel 1929, conobbe Umberto Saba, che avvertì nel giovanissimo istriano qualità autentiche di narratore, al quale si legò presto da profonda amicizia nonostante il significativo divario di età. Fu precoce collaboratore di pregevoli riviste letterarie del tempo, da “Solaria” a “Pan”, da “L’Italia letteraria” a “Omnibus”, a molte altre ancora e a innumerevoli quotidiani nazionali.

«È nato sotto una dominazione straniera – scriveva di sé nella prefazione al suo libro Primavera a Trieste (1951) –: quella dell’Impero austro-ungarico. Hai poi conosciuto, alla fine della prima guerra europea e dopo un breve periodo di governo liberale, vent’anni di fascismo. Più tardi, durante la seconda guerra europea, ha sperimentato la dittatura nazista […]; e a guerra finita, nel maggio ’45, ha dovuto subire la dittatura comunista del maresciallo Tito. Oggi infine (se è possibile dire infine, egli è cittadino del Territorio Libero di Trieste […]. In meno di sei lustri, fra guerre e paci: austriaci, italiani, germanici, jugoslavi, neozelandesi, inglesi, americani; e liberali, fascisti, nazisti, comunisti. Sembra che l’ago di una bussola impazzita abbia voluto segnare, a una a una, tutte le direzioni della rosa dei venti […]. Basta rilevare ciò – forse – per esprimere il drammatico destino di Trieste e dell’intera regione che sta fra l’Isonzo, le Alpi Giulie e il Quarnero».

Un passaggio, questo, che delinea con rapida efficacia la rara e drammatica condizione di un territorio di confine che nell’arco di qualche decennio nel Novecento ha veduto sconvolti gli assetti e gli equilibri di secoli, frammentarsi e smarrirsi popoli e patrimoni di cultura, travolti dalle più tragiche manifestazioni dell’intolleranza ideologica e razziale del Novecento. Vogliamo ricordarlo rievocando proprio Primavera a Trieste, pubblicato allora da Mondadori, testimonianza e diario dei giorni convulsi di fine aprile 1945 nella città giuliana, che costituiscono un documento di grande forza narrativa oltre che storica, anche nell’imminenza delle celebrazioni del 70.mo della Liberazione, che nella Venezia Giulia non fu tale e che, sinora sembra, ancora, non meritare l’interesse dei media nazionali.

La primavera del 1945 segnò per i territori orientali, l’Istria, Fiume, Zara e la Dalmazia, l’acme dell’immensa tragedia dell’occupazione jugoslava, delle deportazioni e degli infoibamenti, delle repressioni indifferenziate di chiunque si opponesse al disegno annessionistico di Tito. I primi di maggio 1945 le truppe «titine», accorse a Trieste così come a Gorizia prima che a Lubiana o a Zagabria per sancire, con l’occupazione militare della città, un principio di priorità e di prelazione rispetto alle truppe anglo-americane, vi esercitarono per 40 giorni un feroce regime di occupazione che, nonostante la parallela presenza alleata, assunse immediatamente un carattere violento e persecutorio dell’elemento italiano, particolarmente degli esponenti dei partiti democratici (cattolici, liberali, azionisti) contrari alle già chiare pretese annessionistiche jugoslave. E negli ultimi giorni di aprile del 1945 il Cln triestino, del quale lo scrittore era un esponente tra i più in vista e al contempo direttore della Biblioteca Civica, seguiva con apprensione il precipitare degli eventi, tra l’avanzata delle colonne jugoslave e la residua resistenza tedesca.

Merita di essere ricordato il clima sapientemente rievocato da Quarantotti Gambini della angosciosa vigilia dell’insurrezione, pianificata dal Cln e dai Volontari della Libertà il 30 aprile, per affermare il diritto della città alla sua libertà e alla sua naturale destinazione, l’Italia, ma in un clima di accerchiamento tra forze tedesche in ripiegamento e imminente ingresso degli jugoslavi. Ogni coraggiosa iniziativa di trattare con il IX Korpus sloveno al fine di guadagnare tempo nella speranza di un rapido arrivo delle truppe alleate, decadde per il mancato riconoscimento, da parte degli jugoslavi, della rappresentatività del Cln.

Come avrebbe rilevato nei primi anni Novanta lo storico Roberto Spazzali, «le tesi annessionistiche della resistenza jugoslava preoccuparono gli ambienti del Cln di Trieste […] dimostrando come fosse opportuno e necessario rivendicare un proprio antifascismo e rifarsi alla tradizione risorgimentale di difesa del nesso con l’Italia. Per quanto difficile fosse la situazione della resistenza italiana non emerse alcun complesso di subalternità al movimento jugoslavo».

L’ingresso della malconcia colonna jugoslava a Trieste, il 2 maggio 1945, è descritto da Quarantotti Gambini minutamente e con acuta tensione: l’esercito di “liberazione” che sfilava nel più chiuso silenzio della città, tra «porte e finestre sbarrate; e strade deserte» si rivela una «turba indescrivibile» di uomini assai mal vestiti dall’«aria misera e abbruttita, […] di poveri contadini […] costretti con la forza». Non è, come si potrebbe pensare, una descrizione risultante da un malcelato disprezzo perché si precisa presto in un esercizio di pietà quasi, che il narratore prova ripensando ai «contadini, boscaioli e pastori» slavi dell’Istria interna. Ma al tempo dell’attesa si sostituisce, nell’arco di poche ore, il momento della persecuzione. Il Cnl si avvide di dover riprendere le operazioni in clandestinità, come sotto l’occupazione nazista. E contestualmente iniziarono a rincorrersi voci di arresti indiscriminati ad opera degli jugoslavi, poco dopo confermate dal passaggio di militi della guardia popolare di scorta a civili deportati verso luoghi sconosciuti.

Quarantotti Gambini esercitò magistralmente la sua qualità di narratore-testimone di un contesto storico che ha i caratteri di unicità, o quasi, nello scenario europeo del 1945. Trieste, con l’intera Venezia Giulia, non è «liberata» come il resto d’Italia ma rinchiusa prigioniera da un’occupante implacabilmente ostile che prontamente manifestava di considerare annessi quei territori alla nuova Jugoslavia titoista. Di contro, l’indifferenza degli anglo-americani e dunque l’assenza di una manifesta garanzia di tutela e di diritto acuiva di ora in ora nei triestini la profonda inquietudine che si alimentava ancor più delle deportazioni che colpivano, sorprendentemente, antifascisti piuttosto che elementi del vecchio regime, mentre emergeva chiaramente il monopolio jugoslavo sulle formazioni partigiane italiane.

Nell’Epilogo, stilato nel 1951 per la prima edizione di Primavera a Trieste presso Mondadori, l’autore riassumeva lo stato del contenzioso a quella data. Il «pensiero politico» di Quarantotti Gambini, rilevava Bruno Maier, «può essere ricondotto a una forma di patriottismo liberale e risorgimentale, assorbito in famiglia o, anche, a una forma di conservatorismo illuminato e ricco di linfe europee». Ma è opportuno anche rimarcare come in Primavera a Trieste egli non manchi di esprimere ripetutamente la chiara condanna del regime fascista e della sua politica coercitiva nei confronti delle minoranze slovene e croate.

Vale ricordare come dalla pubblicazione nel 2011 dei verbali delle riunioni di redazione della Casa editrice Einaudi a cura di Tommaso Munari, si apprenda che nell’incontro del 19 aprile 1950, ascoltato il parere di Italo Calvino, l’editore Giulio Einaudi decise di rinviare a Pier Antonio Quarantotti Gambini il dattiloscritto di Primavera a Trieste. Un «lavoro in forma di diario riferentesi al periodo dell’insurrezione di Trieste», si leggeva nella nota editoriale interna, come ad alludere ad un periodo distante e di scarso interesse, forse per celare un certo fastidio per l’argomento. Così come pare ai nostri giorni, nonostante gli sforzi di restituire memoria e giustizia agli italiani del confine orientale dopo oltre sessant’anni di doloroso silenzio: liberazione mancata, la loro, e così scomoda ancora oggi.

 

Patrizia C. Hansen

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