ANVGD_cover-post-no-img

Popoli in fuga fra Trieste e l’Istria (Il Piccolo 04 ott)

Dal saggio di Raoul Pupo «Gli esodi nell’Adriatico orientale: problemi interpretativi», tratto da «Naufraghi della pace», pubblichiamo un brano per gentile concessione di Donzelli Editore.

di RAOUL PUPO

A proposito del mito della superiorità della cultura latina e italiana, l’attribuzione ad essa di una capacità quasi taumaturgica di attrazione nei confronti delle civiltà ritenute inferiori, come quella slava, va considerata come uno degli elementi di maggior fragilità della politica assimilazionista, che si fondava su di un pregiudizio tanto diffuso – non solo negli ambienti estremi del nazionalismo – quanto errato: quello della superficialità della nazionalizzazione degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia. Coerentemente con tale premessa, sembrava che la «neutralizzazione» delle scarse élites slovene e croate portatrici dell’ideologia nazionale sarebbe stata sufficiente per mettere a disposizione delle istituzioni italiane una massa slava nazionalmente «ingenua», facilmente assimilabile. Così invece non fu, tanto che si può dire che proprio grazie al fascismo – che rafforzò il senso dell’identità slovena e croata – si completò la croatizzazione e la slovenizzazione delle masse contadine in Istria; meriterebbe quindi approfondire il parallelismo con altre situazioni europee dove fu commesso il medesimo errore di giudizio, come la Galizia polacca.
Più in generale, l’evidenza del fallimento della «bonifica etnica» – il che naturalmente non vuol dire che essa sia stata priva di costi umani e politici – rilancia la questione dei limiti del totalitarismo fascista, proclamato, ricercato ma incompiuto. Per evitare genericità di giudizi, il discorso va articolato. Il successo delle politiche assimilatorie nei contesti urbani e le difficoltà di penetrazione in quelli rurali, oltre a segnalare una palese carenza di risorse, rinviano a un nodo ben più fondamentale, quello del rapporto del regime fascista con la modernità. Consideriamo, al riguardo, che quella italiana è stata la seconda ondata di modernizzazione sperimentata dall’area giuliana, dopo quella asburgica e prima di quella comunista jugoslava. Caratteristica di tale stagione modernizzatrice è stata la sua limitazione alle città: non più soltanto i grandi centri come Trieste, Pola e Fiume, ma anche i centri minori a prevalenza italiana. In ogni caso, il mondo rurale ne fu largamente escluso e il divario tra città e campagna si allargò come mai era successo in precedenza, in termini economici e di modelli di vita. Contemporaneamente il fascismo, nazionalmente intollerante ma socialmente conservatore, non si sognava di mettere in discussione le strutture portanti delle comunità rurali, che poterono quindi – nella loro componente slovena e croata – trovare gli spazi per assorbire l’urto dell’aggressione nazionale. La modernizzazione fascista insomma, territorialmente limitata e disgiunta dallo sviluppo economico, non riuscì a integrare le masse rurali slave, ma solo a generare fra loro disperazione ed emigrazione: insufficiente la seconda – seppur consistente – a risolvere i problemi di una società in crisi, sufficiente invece la prima a motivare sloveni e croati alla ricerca di un ordine alternativo, nazionale e sociale. Il regime rivoluzionario jugoslavo si sarebbe invece rivelato capace di entrare in tutte le pieghe della società locale, ponendo ovunque gli italiani – e non solo loro – di fronte all’alternativa fra trasformarsi o andarsene. La terza ondata di modernizzazione quindi, quella degli anni fra il 1950 e il 1980, sarebbe avvenuta in Istria senza più gli italiani e senza più la borghesia.
Veniamo quindi alla fase cruciale degli spostamenti di popolazione, quella dell’esodo da Zara, da Fiume e dall’Istria. Nel merito di tale vicenda, l’attenzione degli osservatori è stata a lungo distratta da una serie di falsi problemi che, almeno a livello di studi, possiamo considerare oramai largamente superati.

Il più evidente è con tutta probabilità quello della quantificazione. Troviamo qui un vero campionario dei trabocchetti e delle cattive abitudini con cui ci si deve misurare ogni volta che tocca fornire una valutazione quantitativa dei costi umani connessi ad atti di violenza di massa, quali vittime di guerra, di genocidi, deportazioni, espulsioni. Ecco quindi fonti parziali e contraddittorie, rimpallo di stime in funzione evidentemente controversistica, scivolamenti tutt’altro che ingenui di significato – come nel caso dei 350.000 esuli dichiarati «ufficialmente » dalle associazioni della diaspora istriana che divengono 350.000 italiani nel linguaggio politico e dei media –, attenzione rivolta agli aspetti in realtà secondari della questione, come il numero assoluto degli esodati, piuttosto che al nodo fondamentale, e cioè al fatto che le partenze coinvolsero comunque la quasi totalità del gruppo nazionale italiano, i cui contorni rimangono peraltro in certa misura indefiniti, considerata la problematicità dell’attribuzione ai profughi di un’identità nazionale certa.

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.