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L’equivoco etnico (Il Piccolo 04 ott)

di SERGIO BARTOLE

Alcune settimane fa questo giornale ospitò un mio articolo in cui esprimevo sconcerto di fronte al rinnovarsi di antiche contrapposizioni cittadine, questa volta sul tema dell'etnonazionalismo. Ricorderò ai lettori che il dibattito traeva origine dall'uso dell'equivoca espressione «territorio etnico» in un documento ufficiale della diplomazia slovena con riferimento a queste terre. Si era replicato che quel territorio non era etnicamente sloveno, ma semmai multietnico.

Scrissi allora che da ambo le parti si era dato spazio ad una terminologia che nel quadro dell'Unione Europea non ha alcun senso in quanto non vi sono territori etnicamente qualificabili, il territorio europeo è senza distinzioni il luogo in cui appartenenti a diverse nazionalità e gruppi linguistici sono insediati o si muovono e si insediano usufruendo dei diritti loro riconosciuti dagli strumenti sovranazionali di salvaguardia della persona umana e, in particolare, delle persone appartenenti alle minoranze nazionali e linguistiche. Definire etnicamente un territorio significa porre le basi per portare il discorso su un piano di mera ricognizione demografica, e per imporre o consentire, comunque, forme di più o meno esplicita discriminazione di chi al relativo gruppo etno-linguistico non appartiene.

A metà del mese di settembre a quel mio contributo ha replicato sul Primorski dnevnik Samo (non Boris) Pahor, al quale debbo una risposta approfittando ancora una volta della cortesia del direttore de «Il Piccolo». Anzitutto debbo ringraziare il mio interlocutore per l'attenzione prestata e per avere così raccolto il mio implicito invito ad una discussione che non può non risultare utile a definire i termini della fruizione dei diritti fondamentali di convivenza in questa parte della Repubblica Italiana e non solo. Al quale dibattito sarebbe bene che partecipassero, seguendo l'esempio di Pahor, altri esponenti della minoranza slovena, compresi coloro che in via privata hanno fatto pervenire la loro approvazione del mio articolo.

È importante che in questa discussione si senta una pluralità di voci, da ambo le parti del confronto, e si abbandoni così la pratica dei silenzi diplomatici o prudenziali. Per l'innanzi lo scambio di opinioni ha interessato soltanto intellettuali italiani. Che ne pensano quegli sloveni? Condividono il giudizio che l'espressione «territorio etnico» è il risultato di una definizione innocente, come vorrebbe il mio collega J. Pirjevec?

Ma ritorniamo a Samo Pahor, il quale purtroppo non accetta la mia opinione in materia e mi accusa anzi di ignorare che il concetto di territorio etnico è presente in strumenti internazionali e leggi nazionali di tutela delle minoranze. Mi spiace di doverlo smentire, ma i suoi esempi sono mal scelti. È vero che la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali condiziona la sua applicazione all'individuazione di determinate aree territoriali, ma la definizione di queste aree non apre la strada al riconoscimento di territori etnici nel senso da lui propugnato. Anzi, all'opposto, quella definizione, nella misura in cui presuppone la contemporanea presenza nei territori considerati di maggioranze e minoranze etniche e linguistiche, esclude che quei territori possano considerarsi appannaggio esclusivo di questo o quel gruppo etnico o linguistico. Questi possono vantare una presenza storica di lunga data ovvero contare anche su numeri sostanziali di appartenenti, e però, proprio per il fatto della loro convivenza, difficilmente possono pretendere che quel territorio sia qualche cosa di diverso dalla sede «materiale» del loro insediamento. Certo ascendenze storiche e composizione numerica contano ai fini della portata ed estensione della tutela assicurata, ma in tutto questo discorso il territorio non giuoca altro ruolo che quello di ambito di riferimento per l'applicazione di una data normativa, sia essa internazionale o interna. Storia e vicende contemporanee di un territorio contano, ma solo in quanto fanno riferimento agli uomini che ne sono protagonisti. Le pretese di esclusività che vanno ovviamente oltre questa prospettiva di lavoro traggono origine da equivoci: se così non fosse, che senso avrebbe far dipendere la concreta applicazione di questa tutela non dalla presenza sul territorio delle persone interessate, ma dalla loro scelta individuale, come vuole l'art. 3 della citata Convenzione? Della cui ignoranza è curioso che mi si accusi posto che come esperto del Governo Italiano ho partecipato alla sua negoziazione e stesura, ed ho successivamente fatto parte per quattro anni del Comitato consultivo per la sua applicazione.

Il signor Pahor pensa di avermi ferito con la sua ironia, ma non si rende conto di avere fatto più male alle ragioni della minoranza alla quale appartiene, facendosi sostenitore di posizioni ideologiche che hanno fatto tanti danni nei Balcani nei tempi recenti ed altrove nel passato in Centro Europa, giacché questa dell'etnonazionalismo o etnocentrismo sembra essere una maledizione di questa parte del continente che pure ha tanti meriti nei confronti dell'Europa e del processo della sua integrazione: si pensi alla recente vicenda della legge regionale per l'insegnamento della lingua friulana.

In particolare, non vorrei poi che la posizione qui criticata traesse origine dalla convinzione che sempre fenomeni minoritari si manifestano quando in un territorio etnicamente compatto si verifica – per una qualsiasi vicenda storica – l'immissione forzata o violenta di un gruppo etnico o linguistico largamente preponderante e diverso da quello autoctono. Se così fosse l'incomprensione della complessità del moderno fenomeno minoritario richiederebbe più che mai la prosecuzione di una discussione che mi sento di auspicare.

Sergio Bartole

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