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Nuova guida sull’Istria, nuovi strafalcioni (Voce del Popolo 19 mar)

«SLOVENIA» DI STEVE FALLON, LAVORO CHE NAUFRAGA NELLA NOSTRA PENISOLA
Una guida che «frastorna»
Sull'Istria tanti strafalcioni,  il tutto aggravato dalla traduzione in lingua italiana

Fino a qualche decennio orsono le guide turistiche erano caratterizzate dalla ricchezza e dalla correttezza delle informazioni, attraverso le quali il visitatore era in grado, anche dal punto di vista culturale e storico, di conoscere, seppure sommariamente, la località prescelta per le proprie vacanze e non solo. Per nostra fortuna esistono ancora delle edizioni puntuali e con un contenuto notevole. Se andiamo però ad analizzare quanto viene prodotto in riferimento alle terre dell’Adriatico orientale possiamo dire che i risultati, il più delle volte, non sono affatto soddisfacenti. Le guide sovente sono approssimative, contengono informazioni non verificate, propongono inesattezze relative al passato e tendono a presentare un’immagine che non sempre corrisponde a quella dei luoghi descritti.

Negli ultimi anni, comunque, sono uscite delle guide che possiamo definire “monumentali”, sia per il volume che occupano sia per la mole di dati che racchiudono. Ci riferiamo ai due tomi di Dario Alberi, concernenti rispettivamente l’Istria e la Dalmazia, e la più recente guida di Alberto Rizzi sulla Dalmazia settentrionale. Esse sono però opere erudite, si rivolgono a un pubblico specifico, “assetato” di conoscenza, che desidera andare ben oltre alle poche e spesso asettiche informazioni e/o descrizioni, e pertanto è alla ricerca anche di ciò che è poco usuale per il turista medio.

Quelle edizioni contengono una messe di dati molto importante e offrono una visione a tutto tondo sulle singole località toccate. Sono, a dire il vero, delle guide sui generis che, nonostante la loro fortuna editoriale, non raggiungono la massa dei villeggianti. Quest’ultimi desiderano dei testi agili, riccamente illustrati, la cui parte scritta deve condensare tutto in poche righe.

Le descrizioni del retaggio storico, artistico, architettonico, ecc., sono costrette a cedere il passo alle curiosità, alle indicazioni di ordine pratico, come la segnalazione dei ristoranti, di vari locali, alberghi, ostelli, luoghi di divertimento e così via. Tra le tante guide che si possono trovare in libreria ricordiamo quelle della “Lonely Planet”, il cui segreto, si legge all’interno di esse, risiede anzitutto nella scelta degli autori, i quali sono “(…) viaggiatori indipendenti e coscienziosi, che non si limitano a compiere ricerche telefoniche o su Internet e non accettano sconti o pagamenti in cambio di relazioni positive. Visitano di persona ogni luogo menzionato nelle guide, premurandosi di riportare informazioni accurate e aggiornate”.

Nella collana è stata data alle stampe anche una guida dedicata alla Slovenia. La sua stesura è stata affidata allo statunitense Steve Fallon, i cui primi viaggi nel Paese risalgono all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Leggendo le sue pagine complessivamente possiamo dire si tratti di un buon prodotto, che unisce con una certa abilità le informazioni di carattere storico e culturale a quelle di ordine pratico, in modo da soddisfare un pubblico più ampio.

Meno fortunata è, invece, la parte riservata all’Istria, nel caso specifico alle località del Capodistriano. Nelle relativamente poche pagine riscontriamo una serie di imprecisioni, strafalcioni e di leggerezze che lasciano non poche perplessità. La traduzione in lingua italiana, poi, ha ulteriormente pasticciato sul contenuto. Chi ha curato l’edizione nella nostra favella non ha tenuto conto né del contesto specifico trattato dalla guida (ossia un territorio certamente facente parte della Repubblica di Slovenia, ma con caratteristiche, peculiarità, una storia, un’architettura, ecc., che nulla hanno a che fare con quella dello Stato in cui si trova).

Ancora una volta salta nell’occhio l’incongruenza relativa ai toponimi: la capitale compare nella versione italiana di Lubiana (che non è altro che una traduzione, alla stregua di Parigi, Londra o Berlino) e non Ljubljana; per le località della costa, invece, i cui nomi italiani sono originali e si perdono nella notte dei tempi, essi sono solo e rigorosamente citati nella versione slovena!

Per un singolare malcostume ormai sempre più dilagante, anche in questo volume i toponimi sono indicati esclusivamente in lingua slovena: infatti si legge di Koper, Izola, Piran e Portorož e solo raramente, quasi come una sorta di curiosità toponomastica, sono indicati i nomi geografici nella loro versione italiana. In una guida, tradotta nella lingua di Dante come minimo ci si attenderebbe di trovare i relativi toponimi in quello stesso idioma, che esistono eccome. Ma così, purtroppo, non è!

Nella pubblicazione si scorgono anche delle note storiche. A pagina 17 leggiamo che “tra la fine del XII e l’inizio del XVI secolo quasi tutte le regioni abitate dagli sloveni passarono nelle mani degli Asburgo, con l’eccezione dell’Istria e del Litorale (Dalmazia), entrambi sotto il controllo della Repubblica di Venezia, e di alcune aree del Prekmurje, che appartenevano alla corona ungherese”. E nel prosieguo si evidenzia: “All’epoca il territorio sloveno occupava una superficie di circa 24000 kmq” circa il 15% in più della sua estensione attuale”.

Si riprende e si diffonde al grande pubblico il concetto di “territorio etnico”, tanto deleterio nel passato, e che ancora oggi porta taluni a considerare i “diversi”, cioè i non sloveni, niente meno che una sorta di “usurpatori” o di “corpi estranei” alla nazione. Per quanto attiene la storia recente, si rammenta che “Nel 1954 la Zona A, abitata sia da italiani sia da sloveni, fu trasformata nella provincia italiana di Trieste, Koper e una striscia costiera di 47 km furono assegnate alla Slovenia, mentre gran parte dell’Istria spettò alla Croazia” (p. 22).

Non mancano nemmeno le bizzarre illustrazioni dei piatti tipici, come il “brodet (zuppa di pesce) della costa della Primorska” (p. 49): anche un piatto caratteristico delle coste adriatiche è indicato quasi fosse una tipica pietanza della cucina slovena, che un ignaro visitatore, con una preparazione il più delle volte mediocre, accetta senza batter ciglio. In riferimento al patrimonio architettonico si evidenzia che “Le tre maggiori cittadine del Litorale – Koper, Piran e Izola (proprio così, nda) – sono ricche di edifici notevoli ricostruiti in stile gotico-veneziano, mentre in più punti si trovano spiagge pulite, barche a noleggio e vivaci discoteche” (p. 166).

La guida racchiude anche delle nozioni storiche che lasciano esterrefatti per la miscela di stramberie proposte. Tra le tante cose si legge che al termine della “Kidričeva ulica, una delle più pittoresche della città, inizia Carpacciov trg, dove la Colonna di Santa Giustina (Steber Sv. Justine) ricorda la galera con cui nel 1571 Koper contribuì alla battaglia di Lepanto nella quale le potenze europee sconfissero i turchi” (p. 168). E poi vi è “l’antica čevljarska ulica (via dei calzolai)”: naturalmente dell’odonimo “Calegaria”, l’arteria che è uno dei simboli della cittadina, nemmeno l’ombra.

Sembra quasi un miraggio quando una nota indica che la fontana della Muda ha una “forma di ponte che simboleggia il nome del mecenate italiano che la fece erigere, Lorenzo Da Ponte” (p. 169). L’autore statunitense sottolinea che “Durante la sua lunga e turbolenta storia Koper ha avuto molti nomi (…)” e continua che “nel periodo compreso tra le due guerre mondiali fu amministrata dagli italiani, che avviarono un programma di italianizzazione della zona” (tale affermazione è alquanto fuorviante, perché non dice contro chi era rivolto il programma di snazionalizzazione e lascia intendere che la città fosse nientemeno che slovena, nda). “Dopo la sconfitta dell’Italia e della Germania nella Seconda guerra mondiale, l’area contesa della costa adriatica, il cosiddetto Territorio Libero di Trieste, fu divisa in due parti in base agli accordi di Londra del 1954. La Zona B, con capitale Koper, fu assegnata alla Jugoslavia, mentre la Zona A, che comprendeva Trieste passò sotto la giurisdizione italiana”.

A proposito del secondo dopoguerra leggiamo “In quegli anni 25000 istriani di lingua italiana si trasferirono a Trieste, mentre più o meno 3000 rimasero fra Koper e le altre località della costa. Oggi la città è il centro della comunità italiana in Slovenia e l’italiano è parlato quasi da tutti” (pp. 167-168). Tutto qua! Che quel “trasferimento” – nella guida l’esodo viene definito con quell’eufemismo – abbia trasformato per sempre l’identità dei luoghi descritti e sradicato una presenza autoctona, non sembra rappresenti un argomento di qualche interesse.

Grottesche sono anche le descrizioni delle altre cittadine della riviera. Si rammenta che “Izola” nel medioevo “era realmente un’isola”, ossia vi è tanta meraviglia per un toponimo – Isola deriva da Insula – che indica chiaramente la natura insulare del territorio. Proseguendo verso occidente ci si imbatte nella “Laguna di Stjuža” – sarebbe una pretesa troppo grande vedere denominato quello specchio d’acqua con il nome di Stiusa, termine dialettale che equivale a chiusa – e “l’alta scogliera di Capo Ronek (Rtič Ronek) – dello storico toponimo Ronco, ovviamente, non esiste alcuna traccia, nda –, ai cui piedi si estende la Baia della Luna (Mesečev zaliv)”. Insomma i nomi geografici “risciacquati”, ribattezzati e addirittura inventati di sana pianta – come nel caso della succitata baia, il cui nuovo nome è stato coniato negli ultimi lustri – sono accolti a braccia aperte, e anche la traduttrice, ignara di tutto, li propone senza problemi nell’edizione italiana.

In questa guida la ricostruzione storica, poi, oltrepassa ogni immaginazione e la fervida fantasia dell’autore propone uno sviluppo “alternativo” del centro urbano di Pirano. Si legge che “dopo aver sconfitto gli illiri e i celti, i romani vi fondarono l’insediamento di Piranum, successivamente abitato dai primi slavi (sic) e in seguito controllato dai bizantini, dai franchi e dai patriarchi di Aquileia” (p. 175).

La nostra lettura è accompagnata da altre inesattezze. “A nord del porto e del piccolo mandracchio si apre Tartinijev trg, cuore dell’odierna città vecchia, giacché nel Medioevo la piazza principale era Trg 1 Maja (si scrive anche Prvomajski trg), situata più a nord-ovest” (p. 175). Che obbrobrio! Un’altra scorrettezza lampante riguarda proprio quell’angolo della cittadina: si asserisce, infatti, che la Piazza Primo maggio era il centro di Pirano nel Medioevo, e fin qui non c’è nulla da eccepire, ciò che è solo frutto dell’immaginazione è che quel luogo si chiamasse “Stari trg” (piazza vecchia!). E Porta Domo – il suo vero nome – allora?

Nel museo del mare una sezione è dedicata alle “Saline di Sečovlje” in cui vi sono fotografie di “uomini e donne intenti al lavoro con in testa cappelli di paglia di foggia asiatica” (p. 176). Nel centro cittadino, invece, si nota “la statua dell’elegante gentiluomo collocata in Tartinijev trg, piazza di forma ovale”, il cui mandracchio, che occupava buona parte dell’odierna piazza, non fu colmato nel 1864 come sta scritto bensì trent’anni dopo. L’autore menziona anche l’esistenza della casa veneziana in cui vi sarebbe una presunta “iscrizione latina”, cioè “Lassa pur dir” – che latina certamente non è – e ricorda la leggenda. Qualche informazione riguarda poi il duomo di San Giorgio, il cui campanile è simile a quello di San Marco nella città lagunare, il battistero e il convento francescano. La nostra lettura si conclude qui, lasciandoci molto perplessi, delusi ed amareggiati.

Kristjan Knez

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