ANVGD_cover-post-no-img

Nipote di Tito: nonno diede un futuro agli jugoslavi (Il Piccolo 30 set)

SARAJEVO Svetlana Broz porta un cognome importante, impegnativo, non importa se oggi amato, contestato o rimosso. Suo nonno, Tito, è stato il fondatore della cosiddetta seconda Jugoslavia, che le guerre degli anni Novanta hanno scientificamente disintegrato. Svetlana Broz parte, in un certo senso, proprio da questa dolorosa disintegrazione, da quando – come cardiologa – iniziò ad andare nelle zone di guerra per assistere e curare. Ma presto, in Bosnia, mise da parte lo stetoscopio ed usò il registratore per raccogliere voci, testimonianze, memorie, confidenze di feriti, ammalati e sfollati capendo da loro che – indipendentemente dall'appartenenza ai diversi gruppi etnici – c'era una grande sete di verità. Verità che, proprio lì dove si sparava e si uccideva, assumeva sfumature e complessità che nulla avevano a che fare con le semplificazioni manichee e bugiarde vomitate in abbondanza dai nazionalismi.

Ne è uscito un libro piuttosto corposo (I giusti nel tempo del male, edito nel 2008) che raccoglie sei anni di testimonianze sui gesti di umana solidarietà che pure sono avvenuti numerosi nel clima di violenza che ha incendiato la ex Jugoslavia negli anni Novanta.

Il lavoro della Broz ha in realtà messo bene in luce due cose. La prima è che non esistono luoghi «maledetti» segnati da ataviche ed ineliminabili contrapposizioni etniche: questa è stata la tesi dello scrittore serbo Dobrica Cosic, ispiratore di Milosevic, che vedeva nella Bosnia una entità spirituale e demoniaca al tempo stesso dato che vi convivevano quattro differenti fedi religiose. Dall'altro nulla, nemmeno al «tempo del male», può cancellare l'esistenza di tanti giusti, di persone cioè che hanno avuto il coraggio di parlare della bontà degli altri o che, non chiedendo nulla, hanno comunque compiuto silenziosamente la loro buona azione senza lasciarsi intossicare da slogan o idee velenose.

La Broz è oggi impegnata nell'educare al coraggio civile (sapendo che l'etimo della parola rimanda a cuore) ed è presidente dell'Ong Gariwo Sarajevo, il Comitato per la Foresta dei Giusti che ha appunto sede nella città simbolo e martire delle ultime guerre balcaniche. Inoltre lavora per creare una solida società civile in Bosnia, uno Stato dove ancora soffiano venti di nuove, ulteriori divisioni (come in Kosovo d'altronde) sollevati dalle voglie secessioniste serbe. E dove l'identità nazionale è terribilmente fragile perché è ancora troppo forte quella etnica.

Lei ha scritto un libro di testimonianze sulla guerra in Bosnia, apparso nel 1999 e nove anni dopo tradotto in Italia. Cosa l'ha spinta a produrre 500 pagine di interviste e ricerche durate ben sei anni?

«La guerra presuppone sempre e soltanto il male. Ma durante il conflitto in Bosnia Erzegovina a quel male si sono opposte tantissime persone e il mio libro raccoglie novanta testimonianze che descrivono le gesta di quegli uomini e donne che hanno detto NO alla guerra. Mentre raccoglievo queste storie in giro per tutto il paese i miei interlocutori raccontavano, e la veridicità delle loro dichiarazioni non si può mettere in discussione in quanto tutto è stato documentato, di quelle persone che non hanno accettato di sottostare al male politicamente orchestrato; raccontavano cioè di quegli uomini e di quelle donne che hanno rischiato la propria vita per salvare i perseguitati. Tutti questi straordinari esempi di coraggio civile parlano della possibilità di scelta che tutti noi abbiamo quando ci troviamo davanti agli episodi di ingiustizia. Io ho speso gli ultimi sedici anni della mia vita andando alla ricerca, raccogliendo e diffondendo questi esempi di coraggio civile. Sono contenta che ora anche in Italia, i
cittadini, soprattutto quelli giovani, abbiano la possibilità di imparare qualcosa di nuovo sulla guerra che ha colpito il mio Paese».

Secondo Lei quando iniziò, nella Jugoslavia che conoscemmo, il «tempo del male»?

«Il male nella Jugoslavia è iniziato nel lontano 1987, con l'ascesa al potere in Serbia di Slobodan Milosevic, presto affiancato da Franjo Tudjman e Alija Izetbegovic, che ugualmente propugnavano una politica fortemente nazionalista. Tutti e tre sono responsabili di aver sistematicamente diffuso, utilizzando soprattutto i media, la paura fra i cittadini. Quella paura non ha fatto altro che alimentare gli animi etno-nazionalistici fino a tal punto da farli usare come una attenuante alle guerre che Miloševic, insieme ai suoi alleati, ha creato e condotto dal 1991. al 1999 in tutta la ex Jugoslavia».

Lei ormai vive in Bosnia, vicino a Sarajevo, pur essendo serba di Belgrado. C'è il rischio che i Balcani, ma soprattutto la Bosnia – i cui problemi sono solo «anestetizzati» da Dayton, ma non risolti – possano conoscere nuovi «tempi del male»?

«Io sono nata a Belgrado 54 anni fa ma non sono di nazionalità serba. Le mie radici provengono da sei differenti gruppi etno-nazionali sparsi in tutta l'area europea, dagli Urali fino all'oceano Atlantico. Considerando che fino ad oggi nessuno mai è riuscito a convincermi che uno di questi gruppi è più importante degli altri sento di non poter appartenere in modo esclusivo a nessun gruppo etno-nazionale. Mi dichiaro cosmopolita, europea e cittadina di Bosnia Erzegovina che gli ultimi nove anni della sua vita ha vissuto a Sarajevo. Gli Accordi di Dayton e la Costituzione bosniaca non hanno anestetizzato la situazione ma hanno consentito la messa in pratica del famoso pensiero di Karl von Clausewitz, cosicché quando oggi pensiamo della Bosnia possiamo tranquillamente parlare della continuità della guerra con altri mezzi. Fino a quando la comunità internazionale non mostrerà una qualche seria forma di interesse per la risoluzione dei problemi, come per esempio la criminalità organizzata, non escludo completament
e la possibilità che fra qualche anno emerga sulla scena politica un nuovo Milosevic e che scoppi un altro conflitto nei Balcani».

Lei ha un cognome che inevitabilmente rimanda a Tito, il padre – oggi da taluni odiato, da altri rimosso, da altri ancora ricordato con nostalgia – della seconda Jugoslavia. Qual è il suo giudizio sul nonno, su ciò che avrebbe potuto – forse – fare per evitare la disintegrazione della Jugoslavia?

«Josip Broz Tito era un politico che aveva una visione del mondo ben precisa e che l'ha messa in pratica dando ai 22 milioni di cittadini jugoslavi, che appartenevano a 120 diversi gruppi etno-nazionali, una vita in comune, dignitosa e decente. Quarantacinque anni di unità hanno confermato che la convivenza è possibile e che il modello di Tito è un modello che può funzionare. Il solo fatto che le forze distruttive, che sono responsabili della dissoluzione della Jugoslavia, abbiano impiegato ben undici anni per annientare quel concetto politico non dimostra altro che la sua forza. Penso che durante il suo operato politico Tito ha preso molte decisioni importanti che i suoi successori non hanno saputo, o meglio, non hanno voluto seguire».

La guerra in Bosnia ha fatto 94 mila vittime, ma anche atrocità, stupri, eccidi che si credevano dimenticati o relegati in tempi crudeli ma lontani. Ma chi sono allora i "giusti" in questo scenario di inaudita violenza?

«Mi viene in mente un vecchio detto popolare: "Nel tempo di pace è facile essere una persona conforme ai principi morali. È in guerra che si vedono veri eroi". Penso che l'importanza dei Giusti venga a galla solo nei tempi del male. I Giusti sono quelle persone che avevano una morale e che le sono rimasti fedeli anche quando a causa di essa potevano perdere la propria vita. Queste persone hanno capito che non volavano vivere una vita a qualsiasi prezzo e si sono messi a difendere attivamente i perseguitati, a prescindere dalla loro appartenenza etnica, religiosa o politica. Si tratta di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di dire di no alle autorità negative che chiedevano loro una partecipazione attiva o passiva ai crimini in atto. I Giusti sono gli eroi di coraggio civile, ma eroi quasi sempre anonimi, ai quali poche volte è stata dedicata una piazza o una via. Perché? Forse perché i cittadini ex-jugoslavi non hanno la forza di identificarsi con queste persone? Solamente quando ogni Giusto avrà un posto che si merita nella nostra vita pubblica e privata sarò convinta che abbiamo imparato la lezione, che abbiamo fatto i conti con il nostro passato e che siamo pronti a costruire una nuova società civile che sarà fiera dei propri maestri di vita, i Giusti. Fino a quel momento dobbiamo continuare a lottare per la loro affermazione».

Vittorio Filippi

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.