Manovre e bombe titine al confine orientale al tempo della Guerra fredda

È uno stillicidio di fatti o di grandi avvenimenti, riportati dalla stampa locale o da studiosi vari, riguardo alle provocazioni titine durante la Guerra fredda. Prima e dopo della strage di Vergarolla, in Istria, avvenuta il 18 agosto 1946, ci sono stati altri attentati titini nella Venezia Giulia. Il 5 dicembre 1945 a Pola esplode un deposito di munizioni presso il Molo Carbone causando un morto, 15 feriti e tantissimi danni, come ha scritto Paolo Radivo. Poco tempo dopo, due individui sospetti provenienti dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste (TLT) vengono sorpresi nel recinto del deposito di esplosivi del Forte San Giorgio con carte di identità non perfettamente in regola e privi di idonea giustificazione. Il 12 gennaio 1946 c’è uno scoppio di munizionamento alla polveriera di Vallelunga, che provoca un morto, 40 feriti e gravi danni. Si ricorda che la competenza per le operazioni su Pola dei servizi segreti jugoslavi era a Fasana, dove c’era la sede dell’OZNA, divenuto UDBA dal 13 marzo 1946. Durante la guerra operava il VOS, cioè: VojnoYobavjeśtajna slużba (servizio segreto militare jugoslavo, a prevalente direzione comunista). Lettera-appello di padre Alfonso Orlini al Presidente del Consiglio dei Ministri di Roma, per salvare dai titini il clero e gli italiani delle Isole istriane di Cherso e di Lussino, 27 luglio 1946. Padre Orlini, dal 1948 al 1952, è il primo Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.Appello per gli Italiani e il clero di Cherso e Lussino, 1946 – “Salvateci, salvateci per amor di Dio”, La tragedia degli italiani di Cherso e Lussino è descritta in una lettera datata 27 luglio 1946 di padre Alfonso Orlini.“Le isole di Cherso e Lussino, ultimo appello del Clero e del popolo. Illustre signor Presidente del Consiglio dei Ministri [Roma], mi consta che nella contesa Giuliana è stato fatto il nome del clero come in massima parte favorevole agli jugoslavi. Per quello che riguarda le Isole posso smentire in pieno l’accusa: qui tutto il clero nativo e residente nel suo complesso di 37 sacerdoti secolari e gran parte del clero regolare originario delle Isole è solo parzialmente residente composto da 17 religiosi, tra cui 14 del mio ordine è e si sente italiano di nascita e di sentimenti e decisamente orientato verso l’Italia. Fanno eccezione non più di 3 o 4 individui partiti da giovani ed educati in Jugoslavia. [..] A nome di questo clero e del popolo delle Isole noi chiediamo:

1) che ci si consenta di esprimere la nostra volontà di popolo civile e democratico con un plebiscito che certamente sarà per l’Italia nella percentuale superiore al 90%.

2) che nella deprecata eventualità della costituzione dello Stato Libero di Trieste, vi vengano incluse le Isole [..].

3) che nella dannata ipotesi di dover far parte della Jugoslavia ci si consenta il diritto di scegliere la nostra cittadinanza [..]

4) che gli esuli (circa 5.000) possano liberamente pronunciarsi nel plebiscito e invece non lo si conceda ai nuovi importati (circa 10.000) in maggioranza macedoni, bosniaci, serbi, gente senza religione o di religione diversa dalla nostra cui aderisce la totalità del nostro popolo.

5) che in qualunque caso non si consenta il trapianto del clero nativo con clero slavo, il che rinnoverebbe [..] della dominazione asburgica quando i preti e frati stranieri erano istrumenti atti a snazionalizzazione [..]Signor Presidente qui insieme con la Patria è in pericolo la Fede! Salvateci, salvateci per l’amore di Dio”.

Padre Alfonso Orlini.

Nell’estate del 1946, a Gorizia lottano per la propria italianità, come ha scritto Carlo Pedroni. Gli scontri di piazza sono all’ordine del giorno. Il 9 agosto si tiene, come d’uso, la commemorazione patriottica della presa della città irredenta da parte del Regio esercito italiano nel 1916. L’evento, a causa dei titini (probabilmente sabotatori jugoslavi), ha uno sbocco violento e fortemente drammatico. Durante la cerimonia italiana al Parco della rimembranza presso il Monumento ai Caduti, due jugoslavi, sganciatisi da un gruppetto di esagitati contestatori, gettano tre bombe sulla calca, ferendo 26 persone. Gli ordigni sono lanciati dai tali Kodermaz e Brisco. Esplodono tra la folla che ascoltava il discorso dell’avvocato Benoni, mutilato di guerra. Il più colpito tra i feriti gravi è Sergio Zuccolo, ricoverato all’ospedale con prognosi delicata.

Allora si scatena per le vie della città “una vera e propria caccia allo slavo-comunista”. La manifestazione diventa violenta e la polizia non riesce a controllarla, se non presso la Casa del popolo, dove si erano rifugiati i facinorosi. Gli jugoslavi scompaiono dall’abitato. Si registrano un morto ed un centinaio di feriti. I fatti di quel 9 agosto 1946 lasciano un segno: la popolazione di Gorizia non era più disposta a tollerare l’invasione della città da parte titina, come hanno scritto gli esponenti della Lega Nazionale su «Il Piccolo» nel 2007.

La strage di Vergarolla – A Pola il 18 agosto 1946, sulla riva di Vergarolla, affollata di bagnanti italiani, famigliole e bimbi, c’era chi assisteva alle gare di nuoto della coppa Scarioni. Pochi polesani si preoccupavano delle numerose mine e delle bombe di profondità ben disinnescate e ammucchiate lì vicino. Era un deposito d’esplosivi a cielo aperto, peraltro rivendicato dai titini come bottino di guerra. Qualcuno andò ad innescarne l’esplosione. Chi fu l’autore dell’efferato gesto? Lo si è scoperto nel 2008, quando furono aperti gli archivi militari inglesi. La responsabilità del misfatto è da attribuirsi all’OZNA, la polizia segreta di Tito, ma tale conclusione è stata contestata da taluni autori di parte slava del sud. Varie fonti, come Claudio Bronzin, sostengono che a innescare i congegni sia stato tale Giuseppe Covacic, o Kovacich, descritto come persona esperto artificiere titino, di statura media, carnagione scura, naso aquilino e da quel giorno mai più visto a Trieste, né a Fiume, né a Pola.Era a Fasana la sede dell’OZNA competente per le operazioni su Pola. Del resto, attentati dinamitardi titini si verificano, nel 1946, anche a Monfalcone e a Trieste, come hanno documentato Paolo Radivo, nel 2016, oltre al «Messaggero Veneto» del 1946. “Tra la paura delle foibe e la strage di Vergarolla – dicono gli esuli riparati in Italia, come l’ingegnere Sergio Satti, esule a Udine – da Pola se ne andò il 90 per cento degli abitanti”. In questi anni varie autorità istituzionali hanno parlato della strage. Non c’è più scarsa informazione, ma ci sono alcune bugie, per tentare di sviare le responsabilità titine nell’eccidio. Anche a Pola, dal 1991 Croazia, c’è una lastra per ricordare le vittime del vile attentato, dove si tengono cerimonie ufficiali in ricordo dei morti nello spirito di «superare gli antichi odi e costruire una nuova Europa», come accennato dalle autorità locali.Su «L’Arena di Pola», nel profilo web del 2020, si legge che Lino Vivoda conosce un altro probabile attentatore di Vergarolla, dato che gli apparati d’innesco pare che fossero due. Sarebbe il suicida “Ivan (Nini) Brljafa, uno tra i primi membri del Partito Comunista Croato clandestino di Pola che durante la guerra aveva fatto il gappista in città insieme a Livio Šain, con il quale aveva compiuto un attentato alla mensa degli ufficiali tedeschi. Era stato membro del gruppo dell’OZNA operante tra Fasana e Peroi. Fu poi direttore del Cantiere “Scoglio Olivi” e nel 1963 presidente dell’Assemblea comunale di Pola. Nel 1979 si suicidò, probabilmente per la disperazione dovuta a un tumore ai reni”. Pure per certi altri cruccio.

È citato il quotidiano «Glas Istre» dell’agosto 1999, quando il giornalista David Fištrović informò di una lettera d’addio lasciata ai familiari da un polese suicidatosi per rimorso ed altro (Ivan Nini Brljafa) che diceva di aver agito ‘su ordine di Albona’ in riferimento a un’esplosione. Scrisse: “Il fatto che i resti dei detonatori fossero gli stessi che venivano adoperati dai minatori e che ad Albona dove c’erano le miniere si trovasse la sede principale dell’organizzazione polese titina forse potrebbe aiutare a risolvere il caso di Vergarolla”. Ivan Brljafa, come accennato, era stato membro del gruppo dell’OZNA attivo tra Fasana e Peroi; era un gruppo formato da esperti in esplosivi, come Tino Vitas, Mijo Pikunić, Nini Brljafa e Livio Šain.

La coscienza sporca dei titini riguardo all’esplosione di Vergarolla, infine, si evidenzia nel fatto che “da nessuna parte della stampa o dei rapporti ufficiali – come ha rilevato Carlo Porcella – si nota che il governo titino abbia chiesto un risarcimento per la mancata acquisizione dell’esplosivo utilizzato che rivendicava”.

Provocazioni titine nella Venezia Giulia – Il 20 maggio 1946, come riporta Paolo Radivo, il Dipartimento di Stato USA trasmette al Governo jugoslavo una nota di protesta che denunciava fra l’altro l’«attività criminale e terrorista» in Zona A di alcuni membri dell’esercito jugoslavo e di altre organizzazioni paramilitari controllate da Belgrado. Il 30 giugno 1946 a Pieris (Gorizia) militanti filo-jugoslavi interrompono la tappa del Giro d’Italia a colpi di pistola, ferendo un agente della Polizia Civile. Il giorno successivo a Trieste una bomba ferisce 9 militari anglo-americani, mentre elementi filo-jugoslavi sparano contro manifestanti filo-italiani, che si scagliano contro alcune sedi filo-titoiste. A fine luglio soldati jugoslavi sconfinano nella Zona A presso Gorizia uccidendo un soldato americano. Alcuni giorni dopo militari jugoslavi sparano contro soldati inglesi presso il posto di blocco di Prebenico (fra Trieste e Capodistria). Il 31 luglio 1946 l’agenzia ANSA informa di un rastrellamento anglo-americano in corso nella zona di Monfalcone (GO) per sventare un atteso colpo di mano jugoslavo.

Il 14 settembre 1946 una bomba esplode di notte a Trieste in un ricreatorio comunale distruggendone due piani e la facciata. Ai primi di ottobre, sempre del 1946, sono segnalati a Trieste una trentina di ex prigionieri tedeschi equipaggiati dagli jugoslavi con fucili ed esplosivi per compiere sabotaggi e attentati in Zona A, contro gli anglo-americani. Il 3 novembre 1946, inoltre, elementi filo-jugoslavi assassinano l’autista del sindaco filo-italiano di Monfalcone (GO). La strage di Vergarolla è dunque perfettamente compatibile con la politica aggressiva e terroristica attuata da Tito in quel periodo contro i filo-italiani e gli anglo-americani nella Venezia Giulia. E non vanno dimenticate le contemporanee violente attività di spionaggio jugoslavo in Grecia, Albania e, addirittura, in Spagna, come ha scritto Paolo Radivo.Un giornalista de «L’Arena di Pola» del 25 maggio 1949 scrive: “Le strane manovre di un soldato jugoslavo hanno attratto l’attenzione di una nostra sentinella di guardia lungo il confine sul Monte Sabotino (GO). Cercava il Graniciaro di penetrare nel nostro territorio ma, fatti alcuni metri, e vistosi scorto, ritornava prontamente sui propri passi. Poco dopo, però, ritentava l’impresa, ma questa volta alcuni colpi di moschetto sparati in aria lo fecero desistere definitivamente”.

Colpisce i lettori un piccolo pezzo di guerra fredda vissuto a Resia (UD) nel 1950. “Fu recuperata la salma di Silvio Buttolo di 25 anni da Uccea – scrive Antonio Longhino a pag. 67 di un suo libro – ucciso dai graniciari (guardie confinarie jugoslave, per lo più di etnia serba) mentre stava tagliando legna sul loro territorio. Le Autorità slave rifiutarono di restituire la salma. Disperato e sconfortato, il padre Simeone, di notte, dopo alcuni giorni, riuscì a raggiungerlo, metterlo in un sacco e trascinarlo fino al fiume”. I titini dissero che quel corpo abbandonato sulla frontiera doveva servire come esempio.

La fine del TLT, 1954 – La tensione è molto forte nei primi anni ’50, quando si stava concludendo la stagione del TLT. Nella Zona B, sotto il controllo jugoslavo, Tito concentra milizie, reparti motorizzati e dimostranti scalmanati. L’allora Ministro della Difesa italiano Paolo Emilio Taviani non perde tempo a far affluire in quella che era la Zona A del Territorio Libero di Trieste (che comprendeva anche Duino, Aurisina e Muggia) alcuni reparti meccanizzati viste le minacce di Tito a seguito della prossima assegnazione della città di Trieste all’Italia. Alla fine di agosto 1953, il giorno 28, il Ministro Taviani convoca il Generale Ettore Musco, Capo del SIFAR, ed Efisio Marras, Capo di Stato Maggiore della Difesa sulle eventuali mosse da prendere. Quando il Capo della Repubblica Federale di Jugoslavia minaccia che le sue truppe avrebbero varcato la frontiera non appena gli Italiani fossero entrati a Trieste, la tensione sale ai massimi livelli. Annota Taviani: “Marras mi scrive che, se non mobilitiamo e non rafforziamo lo schieramento alla frontiera, gli jugoslavi ormai già schierati sull’Alto e Medio Isonzo e nel Carso non potrebbero essere adeguatamente fronteggiati. In parole spicce: potrebbero arrivare a Udine e a Treviso. È un rischio grosso”. La situazione peggiora tra il 3 e il 7 novembre: gravi disordini scoppiarono a Trieste con le forze di polizia alleate, che causarono la morte di sei cittadini italiani, uno dei quali colto a sparare contro gli inglesi. Questi disordini portarono un anno dopo al Memorandum di Londra che assegnò definitivamente la Zona A all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia. Il tutto è ratificato col Trattato di Osimo nel 1975.

Come hanno descritto Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino negli scontri di Trieste del 1952-1953 tra dimostranti filo-italiani e polizia inglese si nota una regia di esponenti del MSI, con “squadre” provenienti da Verona e Padova, che addirittura lanciano bombe a mano, provocando decine di feriti, tra i quali gli stessi iscritti al MSI (pp. 32-35). Per l’8 marzo 1952 i faziosi raggiungono Trieste in treno; “il partito aveva pagato i biglietti” come rivela nell’interrogatorio in questura il “neofascista veronese di 28 anni Aldo Tomba” (p. 35). Il Comitato per la difesa dell’italianità di Trieste, guidato dal sindaco Gianni Bartoli, oltre che dei missini, si avvale di due bande del “Viale” e di “Cavana”. Tali gang sono nel mirino della Pubblica sicurezza (p. 64). Certi elementi di dette gang, costretti ad abbandonare il TLT, si rifugiano a Udine e Gorizia. Il Comitato di cui sopra provvede inoltre al “pagamento di ricompense ai giovani che hanno partecipato attivamente ai disordini nella Zona B” (p. 65), che è sotto il controllo jugoslavo.Gli inglesi, di stanza nel TLT, segnalano che un aereo militare jugoslavo ha attraversato lo spazio aereo sopra Salcano (zona di frontiera) alle ore 17 del 3 settembre 1953; una pattuglia jugoslava ha poi attraversato la frontiera a Stupizza, ma si è ritirata senza incidenti appena è scattato l’allarme (p. 41). Stupizza è frazione di Pulfero, in provincia di Udine. È a 1 km dal confine jugoslavo. Dopo 3 km dalla frontiera in Slovenia c’è Caporetto / Kobarid. Invece Salcano / Solkan è a pochi km a nord di Gorizia. Le informazioni di Amodeo e Cereghino derivano da Londra, presso il National Archives / United Kingdom, Zone A of the Free Territory of Trieste, 1952-1953.Le violenze titine vanno avanti anche negli anni ’60. È sempre «L’Arena di Pola» a riferirne, come nel caso dell’uccisione di un agricoltore triestino, riportata nell’edizione del 31 gennaio 1961: “In prossimità della linea di demarcazione della Zona B, in territorio amministrato dalla Jugoslavia, guardie confinare fitine hanno ucciso con raffiche di mitra un agricoltore triestino, certo Giovanni Pecchiari, di anni 52. Le cause e le circostanze del tragico episodio non sono risultate finora chiarite. Versioni provenienti da fonte jugoslava spiegherebbero che il Pecchiari, al momento di essere scoperto e circondato da una pattuglia titina, era armato di una pistola a mitraglia con la quale avrebbe sparato per sottrarsi alla cattura e nel tentativo di raggiungere il vicino territorio italiano”.

Prove di disgelo a Platischis, 1963 – La situazione del confine orientale non è solo funestata dalle mitragliate sulle fughe di italiani dalle terre dei loro padri, passate alla Jugoslavia. L’esodo giuliano dalmata prosegue da clandestini, o apolidi fino agli anni ’60, nonostante certi storici accademici riferiscano che si spenga nel 1955-’56, venendo meno il diritto d’opzione sancito dal Trattato di pace del 10 febbraio 1947. Penso, tra i tanti delle oltre mie 535 interviste, all’esodo dei Palaziol di Valle d’Istria, fuggiti nel 1963, o ai Flego di Pinguente d’Istria, scacciati nel 1963, o ai Fatovic di Zara, fuoriusciti nel 1957-1959.

È senza violenza e, invece, pieno di umanità e di disgelo il caso di Platischis. Me lo ha raccontato Sergio Burelli, veterinario nella condotta di Attimis, Nimis e Taipana (UD) dal 1962 al 1966. “Un giorno del 1963 – ha detto Burelli – mi ha chiamato il maresciallo dei Carabinieri della zona dove lavoravo, dicendomi di trovarci a Platischis, frazione del Comune di Taipana, una realtà dove oltre il 70 per cento dei residenti parla lo sloveno e l’italiano. Siccome la strada per raggiungere quel borgo da casa mia, io abitavo a Nimis, era piuttosto accidentata, ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi, per evitare meglio i massi con la mia Volkswagen maggiolino bianca”. Poi cosa è successo? “I Carabinieri ci guidano fino al confine di secondo grado con la Jugoslavia a circa 3 chilometri dall’abitato – ha riferito il testimone – e poi mi dicono che di là del confine c’è una bovina molto ammalata nella stalla di certi contadini jugoslavi e io avrei dovuto visitare passando il confine, mentre Carabinieri e graniciari si sarebbero voltati dall’altra parte. Allibito, dissi che non solo ero senza passaporto, ma che quel confine era idoneo al transito esclusivo dei locali con la propusniza, il lasciapassare. Il Carabiniere bonaccione insisteva nel dirmi di aiutare quella povera famiglia dell’ex provincia di Gorizia e ora jugoslava, poi aggiungeva che tutti erano d’accordo, ma che nessuno avrebbe visto nulla. Lascio mia moglie nella Volkswagen, tra le donne locali affollatesi incuriosite e mi avvio a piedi verso la sbarra della frontiera. Le guardie confinarie si girano dall’altra parte, come se fosse un film, ma siccome entravo clandestinamente in Jugoslavia avrebbero potuto arrestarmi e sarei finito in un lager di Tito. Visitai quella mucca magrissima e le iniettai un farmaco, così sotto gli occhi felici dei contadini jugoslavi la vacca si riprese. Avrebbero voluto pagarmi, ma non avevano dinari e tanto meno lire italiane, così una donna andò a prendere una gallina cui legò le zampe e me la offrì. Dopo i saluti a inchini e con le mani, ripassai il confine, con le solite guardie di frontiera voltate a guardare il panorama vicino a una meschina garrita monoposto. Salutati i Carabinieri, mi misi al volante con la mia famiglia e la gallina magrissima pure quella. Arrivati a Nimis dovetti abbatterla, perché era piena di vermi, però avevo fatto una cosa buona”.

Solo dal 1972 i Finanzieri e i Carabinieri ebbero una decente casermetta confinaria al valico di Platischis con tettoia, ufficio, servizi igienici e una camera con letti a castello per quattro posti, costruita con i fondi della Provincia di Udine. Dal 1969-1970 proprio a cura della Provincia inizia la costruzione di tali piccoli edifici per accogliere adeguatamente la polizia di frontiera italiana. Vengono edificate sei casermette in altrettanti posti di blocco sul confine con la Jugoslavia, tutte in provincia di Udine. La prima di esse, eretta nel 1970, è sita in località Pian delle Farcadizze, a Canebola, frazione del Comune di Faedis, a ridosso del paese sloveno di Robedischis. Seguono quelle di Polava, nel Comune di Savogna, di Val Judrio, in Comune di Prepotto, di Passo Solarie, in Comune di Drenchia e Platischis, queste due ultime terminate del 1972. C’è, infine, quella di Uccea, frazione del Comune di Resia, fabbricata nel 1973.

Fonte orale – Sergio Burelli, Sarustin (Fagagna 1926-Udine 2017), intervista a cura di Elio Varutti a Udine del 29 maggio 2016, in presenza di Carmen Burelli, con sue riflessioni del 28 maggio 2021.

Cenni bibliografici

Fabio Amodeo, Mario J. Cereghino, Top secret. Trieste e il confine orientale tra guerra e dopoguerra, vol IV, 1952-1954, Udine-Trieste, Editoriale FVG, 2008.

Sergio Fornasir, Antonio Bisiach (a cura di), Gorizia ritorna all’Italia: cinquant’anni dopo. Immagini dell’entusiasmo e della sofferta attesa dei giovani goriziani: 1945-1995, 1947-1997, Gorizia, Associazione giovanile italiana, 1997.

Lega Nazionale 1891, Il 9 agosto 1946, via i titini da Gorizia, «Il Piccolo», Cronaca di Gorizia, 10 agosto 2007.

Antonio Longhino, Val Resia. Tradizioni e cultura di un popolo, Udine, Tipografia Marioni, 2017.

Guido Mondolfo, “La storia italiana di Gorizia”, «Il Piccolo», Cronaca di Gorizia, 13 agosto 2008.

Alfonso Orlini, Lettera di appello al Presidente del Consiglio dei Ministri di Roma, per salvare dagli iugoslavi il clero e gli italiani delle Isole di Cherso e di Lussino, 27 luglio 1946, ms., tratta da Facebook.

Carlo A. Pedroni, Gorizia: cronaca di due anni: 5 agosto 1945-16 settembre 1947, Gorizia, Associazione giovanile italiana, Tipogr. Sociale, 1952.

Carlo Porcella, “Strage di Vergarolla, 75 anni dopo ancora tanti quesiti”, «Messaggero Veneto», 19 agosto 2021.

Paolo Radivo, La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive, Libero Comune di Pola in esilio, «L’Arena di Pola», 2016.

Elio Varutti, “L’Ozna di Tito dietro la strage di Vergarolla ora si faccia luce”, «Messaggero Veneto», 12 settembre 2019, p. 41.

Sitologia

Laura Brussi, Vergarolla 75 anni dopo, commento per la memoria, a cura di Elio Varutti, on line dal 21 aprile 2021 su anvgdcomitatoprovincialediudine.wordpress.com

E. Varutti, Emilio Fatovic, esule da Zara nei campi profughi italiani e consigliere europeo a Bruxelles, on line dal 18 novembre 2018 su eliovarutti.blogspot.com

E. Varutti, Sociologia dell’eccidio in foiba, on line dal 19 marzo 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, Trieste al tempo del TLT, 1945-1954, on line dal 15 maggio 2020 su varutti.wordpress.com

E. Varutti, Vivere con la paura della foiba. Istriani nella Guerra fredda, on line dal 16 maggio 2020 su varutti.wordpress.com

E. Varutti, L’Ozna di Tito in Nord Italia tra guerra e dopoguerra, on line dal 9 giugno 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020 su eliovarutti.wordpress.com

E. Varutti, La strage di Vergarolla raccontata da Claudio Bronzin, esule da Pola a Firenze, on line dal 12 agosto 2020 su varutti.wordpress.com

E. Varutti, Capi partigiani slavi in Friuli, Veneto e nella Venezia Giulia. Misteri Ozna, on line dal 28 marzo 2021 su eliovarutti.wordpress.com

Progetto e attività di ricerca: Elio Varutti, Coordinatore del gruppo di lavoro storico-scientifico dell’ANVGD di Udine. Networking a cura di Girolamo Jacobson, Maria Iole Furlan e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti (ANVGD Udine), professori Stefano Meroi e Marcello Mencarelli. Si ringrazia l’architetto Franco Pischiutti (ANVGD Udine) per la preziosa collaborazione riservata alle ricerche. Adesioni al progetto: Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine. Fotografie da collezioni private, dall’Archivio AGI di Gorizia e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine.

Elio Varutti – 30/08/2021

Fonte: Varutti e esuli giuliani, Udine

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