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L’intervento del CDM alla Convention

Forma e significato, saranno questi i due momenti di questo mio intervento che non si limiterà all’analisi dell’informazione da e per il nostro popolo sparso ma vuole affrontare alcune riflessioni che riguardano il futuro rispondendo per tanto allo spirito di questo incontro. Sono una trentina le testate che ci riguardano, con tradizione più o meno radicata, per un totale annuo di quasi cinquemila pagine inviate a migliaia di lettori che o usufruiscono di un abbonamento specifico o contribuiscono a sostenere i giornali con offerte volontarie nel ricordo dei propri cari. La pubblicazione è possibile soprattutto grazie ai finanziamenti per la salvaguardia e lo sviluppo della cultura degli Esuli stanziati dal Governo sulla base della legge che tutti ben conosciamo. Non voglio soffermarmi sulle difficoltà economiche che ritardi nell’erogazione dei mezzi stanno determinando un po’ ovunque visto che questo sarà argomento che altri tratteranno. Bensì voglio tentare un’analisi delle caratteristiche della stampa giuliano-dalmata e del suo impatto sul pubblico. Due i livelli che vanno considerati: la nostra presenza sulla stampa nazionale, le testate realizzate in proprio. Partirò da quest’ultima per approdare alla prima anche perché si compenetrano. La genesi delle testate – la filosofia di base è stata “ogni campanile il suo organo d’informazione” – ha determinato la scelta degli argomenti da trattare: solitamente si rammentano fatti e persone di un mondo dissolto per non perderne la memoria. Gli amarcord sono una costante in questi ultimi anni in cui si è affievolita, per certi versi, la rabbia ed il forte rancore che aveva caratterizzato la stampa giuliano-dalmata nella battaglia per il riconoscimento della verità storica, di una realtà invisibile alla nazione e alle pagine della storiografia che non fosse di nicchia. Ebbene, superata questa fase si apre un nuovo capitolo che mantiene il legame con il passato ma ha bisogno di nuovi traguardi che vanno studiati, definiti e raggiunti. Sbaglia chi crede che il cambiamento stia nel rinnegare ciò che è stato, è saggio traghettare nel nuovo tutta l’esperienza acquisita anche se è la cosa più difficile da realizzare a livello pratico perché richiede compromessi e l’intelligenza di una mediazione che alla lunga però, paga. Che cosa intendo? Torniamo all’analisi dei nostri giornali. Solo una piccola parte si avvale del contributo di professionisti che spesso si limitano a firmare il giornale – come da protocollo imposto dal tribunale per la registrazione della testata –  che danno per tanto un contributo marginale all’impostazione del giornale stesso. Infatti, nella maggioranza dei casi questo è il prodotto di articoli e servizi inviati dai lettori stessi sugli argomenti più disparati, di esperienze molto personali che per tanto interessano una cerchia limitata di persone. Riuscire a trasformare il particolare in generale, superare il limite del proprio “giardino” per approdare ad un qualcosa che si avvicini all’informazione per tutti, è una sfida non da poco. D’altronde la grande ricchezza della nostra stampa sta proprio  in questo coinvolgimento disinvolto di gente che scrive, che sente come propria la testata e non la considera un semplice strumento di trasmissione dell’informazione. Succede però che il lavoro fatto a livello locale venga annunciato sotto forma di notizia, mancano resoconti, riflessioni, interventi che ne rilevino la portata e creino per tanto un volano d’interesse generale. E come se, scusate il paragone irriverente, dei premi Oscar dovessimo leggere l’annuncio e non sapere a chi sono stati assegnati. Chiaramente questo richiederebbe una distribuzione di collaboratori su tutto il territorio in grado di espletare tale compito ma anche laddove ci sono, non esiste l’abitudine al loro coinvolgimento, per cui ci si affida all’attenzione dei giornali locali più che alla stampa dell’associazionismo. Ora, già da qualche anno circola l’idea di creare un unico giornale, magari un settimanale di otto pagine (tanto per fare un esempio per un totale di quasi cinquecento pagine annue contro le attuali cinquemila) per informare e comunicare mantenendo il riferimento ai campanili (e non può essere diversamente) ma anche creando informazione che è uno dei “nei” della nostra realtà, e mi spiego. Raramente filtrano notizie che ci riguardano sulla stampa nazionale. Perché? I meccanismi che oggi regolano l’informazione funzionano su un sistema di reti che passano attraverso le agenzie di stampa locali e attraverso l’impegno diretto di professionisti. Il giornale va prodotto da una redazione che persegue un fine ben distinguibile e in grado di interagire con la politica, la cultura, la società. Proviamo ad immaginare quanto segue: un ministro prende posizione sulle nostre cose, Lucio Toth scrive una nota, sempre autorevole, colta, d’alto livello che viene messa on line sul sito anvgd, rimbalza su arcipelagoadriatico il sito del CDM, viene ripresa dalla rassegna stampa della MLH, forse da Il Piccolo, spesso o quasi sempre dalla Voce del Popolo, poi nel rispetto dei tempi di produzione e della freschezza della notizia, passa sui mensili giuliano-dalmati. L’effetto? Debole e circoscritto e quasi sempre senza risposta. E’ frustrante perché le cose che si dicono sono importanti, e non solo per il nostro mondo. Poche volte, si leggono sulla nostra stampa interviste o interventi con o di uomini politici o della cultura che prendono posizione o rispondono a quesiti su temi che ci riguardano da vicino. Le nostre testate, per la loro distribuzione frammentaria non creano opinione a livello più ampio per cui non creano un volano d’interesse nell’intervistato. Chi crea il giornale non fa giornalismo d’inchiesta perché chiaramente non esistono strutture adatte, esistono solo cellule sparse che fanno ciò che possono e con grande fatica. Una testata nazionale avrebbe peso politico, un ufficio stampa anche di più. Ma per arrivare a ciò bisognerebbe creare una redazione di professionisti in grado di fare bene il proprio lavoro, di garantire qualità e continuità del prodotto, unità d’intenti. Ma per arrivare a ciò, è proprio quest’ultimo assioma a creare la maggiore difficoltà. In un mondo che è cambiato, non possiamo nascondercelo, s’impone la necessità di immaginare un futuro possibile per l’associazionismo giuliano-dalmato in Italia e nel Mondo. Il passaggio del testimone alle nuove idee non è così semplice e non basta un cambio anagrafico per garantirne il successo. Sappiamo benissimo che ci sono nel nostro mondo associazioni rette da giovani con idee di un tale estremismo nelle quali è difficile riconoscersi per chi ha il buon senso di confidare nelle aperture su modelli europei della società di oggi. Ebbene, l’appello quindi riguarda gli uomini di buona volontà che con pragmatismo, riescano a proiettarsi verso nuove soluzioni, se non pienamente condivise almeno rispettate nel nome di un futuro che vogliamo possa essere, nelle quali tutti riescano a trovare ragione d’essere. Da due anni a Trieste si susseguono dibattiti, iniziati con la Bancarella e poi fatti propri dall’Associazione delle Comunità Istriane durante i quali ci si interroga su che cosa significhi oggi essere esuli. I contributi, l’ intreccio di opinioni ma anche una catarsi avvenuta attraverso la presentazione in pubblico di idee tenute strette, inaccessibili, per decenni, da chi ha sofferto, odiato, imprecato e che ora non sa da che parte stare, hanno dato modo di focalizzare la situazione. Il 10 Febbraio non ha cambiato solo l’atteggiamento dell’Italia nei confronti dei temi degli Esuli, ha cambiato gli esuli e il loro rapporto con il mondo. E’ successo, se mi permettete un’analogia, la medesima cosa con l’Unione Italiana negli anni Novanta: i venti di democrazia hanno cancellato il nemico di sempre, il comunismo jugoslavo, c’era un bisogno urgente di reinventare un proprio ruolo sociale e politico. In Istria e a Fiume si sta ancora segnando il passo senza che nessuna decisione sia stata presa su ciò che rappresenta oggi la minoranza. Impariamo dagli errori, non lasciamo che sia il tempo a decidere che cosa vogliamo essere dopo il 10 Febbraio. Anche all’estero, i giuliano-dalmati sono emersi dal silenzio con il Giorno del Ricordo. Di loro si occupano i media, le autorità locali, i consolati, i politici in visita ai loro Paesi di residenza. Anche loro ci guardano, attendono dall’Italia l’input per poter cambiare. A loro servirebbero scuole, corsi d’italiano per nuove generazioni. In Italia servono corsi e conferenza sulla storia dell’Adriatico Orientale anche da tenere nelle nostre sedi e dirette agli esuli e loro figli che sentono altrimenti allontanarsi il contatto con le realtà di origine. E soprattutto fare rete con una giusta informazione. No c’è ancora un giornale che sia rappresentativo della nostra realtà ma solo tanti piccoli tentativi gestiti in proprio. Abbiamo invece bisogno di un’informazione che crei opinione fatta da gente del mestiere e con il coinvolgimento dei migliori intellettuali del nostro mondo, spesso defilati. Il primo compito è il loro coinvolgimento in ciò di cui già disponiamo accanto ad una riflessione reale su ciò che dovrebbe essere. Non possiamo perdere nessuno lungo il nostro cammino, ognuno di noi può dare un contributo. Internet è un veicolo importante, usiamolo con criterio. Non tutto va bene e non tutti i luoghi sono deputati a fare un’informazione seria, non si può mescolare sacro e profano, bisogna fare dei distinguo che nella frenesia del tutto e subito rischia di confondere le idee a chi ne ha già poche e male impostate. Vale a dire agli indecisi, a chi non ha un forte senso d’appartenenza e a chi non fa ancora parte del mondo dell’associazionismo. A queste persone dobbiamo fornire delle chance. Ed infine permettetemi una riflessione su un argomento che mi sta particolarmente a cuore. Non ci rendiamo conto del grande patrimonio ancora a nostra disposizione che sono gli esuli veri e propri, memoria e testimonianza della nostra realtà. In diverse sedi si è proceduto a raccogliere i loro aneddoti e racconti ma in modo scollegato e discontinuo. Non dovremmo avere paura di creare sinergie, di decidere un centro di raccolta che non escluda gli altri e che si faccia promotore di un’azione di indagine ordinata e capillare. Credo che in questo senso la Società di Studi Fiumani con il lavoro del prof. Stelli insegni. La nostra informazione dovrebbe partire proprio da questo lavoro perché è l’unica “originalità” che riusciamo a produrre e ad offrire alla stampa anche a livello nazionale come un racconto di vite vissute,emblema della storia di un popolo che così va conosciuto. Un progetto così articolato basterebbe da solo ad impegnarci per i prossimi anni a salvare ciò che fin qui è stato considerato marginale ma ciò che più preoccupa, è stato creduto eterno, e non lo è. Rosanna Turcinovich Giuricin

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