Le linee guida per la didattica della frontiera adriatica al centro di una tavola rotonda

Tra le varie iniziative che si sono concretizzate nel periodo intercorso fra la seconda e la terza Scuola Estiva per docenti sulla storia del confine orientale attualmente in corso di svolgimento al Vittoriale, la più importante è stata la pubblicazione da parte del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi delle “Linee guida per la didattica della frontiera adriatica”.

Redatte da Giuseppe Parlato, Raoul Pupo, Guido Rumici e Roberto Spazzali nonché approvate dal Tavolo di lavoro Ministero dell’Istruzione – Associazioni degli Esuli istriani, fiumani e dalmati, tali linee guida sono state al centro della tavola rotonda che ha caratterizzato ampia parte della seconda giornata di formazione.

Gianni Oliva, moderatore dell’incontro, ha subito ribadito che si tratta di uno strumento didattico e non interpretativo: «Nessuno storico avrebbe scritto né sottoscritto un testo che impone una verità:  gli autori hanno messo assieme una serie di nodi problematici e fornito indicazioni didattiche e bibliografiche per barcamenarsi nella complessità della frontiera adriatica»

Ha quindi aperto gli interventi il professor Pupo: «Nel linguaggio comune confine e frontiera sono sinonimi, noi abbiamo voluto indicare la frontiera come un’area vasta, uno spazio che non ha contorni strettamente definiti in cui si mescolano mondi diversi a differenza di un confine che recide nettamente. La frontiera adriatica è all’incrocio tra italiani, tedeschi e slavi ma non dobbiamo omettere l’influenza ungherese, a lungo presente in Dalmazia e ancor di più a Fiume» In tale contesto forte è stata l’impronta della Repubblica di Venezia, che non è stata l’unica fonte di lingua e cultura italofona, ma tuttavia ha contribuito a definire la distinzione tra una costa maggiormente sviluppata e a prevalenza italiana rispetto all’entroterra abitato soprattutto da slavi, alcuni anche discendenti di gruppi fatti affluire dalla Serenissima stessa per popolare le campagne.

Nella seconda metà  dell’Ottocento questa compresenza etnica inizia a problematizzarsi creando difficoltà all’Impero asburgico, di cui i manuali di storia ignorano il ruolo cardine nell’Europa orientale ed i suoi rapporti anche conflittuali con la Russia, gli ottomani e Venezia, come ha ricordato Spazzali: «Il confine a macchia di leopardo avrebbe caratterizzato i rapporti tra Vienna e Venezia, che peraltro era subentrata al Patriarca di Aquileia che era stato feudatario imperiale, è la penisola istriana ad essere poi abbastanza nettamente divisa tra la costa veneziana e l’interno afferente alla casa d’Austria fino allo sconvolgimento napoleonico. Proprio nell’ambito delle varie risistemazioni territoriali napoleoniche sorgeranno le Province Illiriche con capoluogo Lubiana: un punto di riferimento per la successiva intellighenzia slava che voleva creare un’unità territoriale non più legata a Venezia o a Trieste» La nascita del Regno d’Italia nel 1861 avrebbe destato una forte attrattiva per i patrioti italiani e la dieta del nessuno durante la quale i rappresentanti istriani si rifiutarono di eleggere i propri rappresentanti alla Camera Bassa austriaca fu significativa. Tuttavia bisognava tenere in considerazione che Trieste faceva parte della confederazione germanica e parte dell’imprenditoria cittadina aveva capito che al di là dell’appartenenza statuale il porto adriatico rappresentava lo sbocco al mare del mondo germanico.

«A fronte di queste realtà, la frontiera adriatica è stata fucina di miti: dall’irredentismo all’Austria felix, pe giungere al Territorio Libero di Trieste passando per la vittoria mutilata, cui corrispondono analoghe narrazioni slovene e croate. L’approccio delle linee gudia serve anche a smentire i luoghi comuni» ha quindi aggiunto Pupo.

«Mito che però non rappresenta una controstoria bensì una storia parallela – ha quindi specificato il professor Parlato – che rappresenta ciò che la gente pensa e quindi bisogna tenerlo in adeguata ma non eccessiva considerazione. Il mito di Fiume ad esempio rappresenta, nel fascismo e nel neofascismo, un fiume carsico che ogni tanto riemerge»

Sollecitato da Oliva, Parlato ha quindi evidenziato gli sconvolgimenti che i confini successivi alla Prima guerra mondiale portarono per l’Italia, che si trovò a dover amministrare decine di migliaia di alloglotti, tra tedeschi, sloveni e croati che adesso si trovano in minoranza dopo che nei decenni precedenti avevano portato la comunità italiana a consolidare un autonomismo di difesa culturale di fronte alle prevaricazioni austro-tedesche, ungheresi e slave: «Nel nuovo assetto già lo Stato liberale tentò una snazionalizzazione soft nel 1919-’22: sarebbe stata la riforma Gentile del 1923 il primo invasivo intervento dall’alto. Nell’area del confine orientale peraltro a Trieste sorse uno dei primi fasci di combattimento, che ebbe subito molti iscritti e condizionò il movimento mussoliniano allineandolo alla destra nazionalista rispetto alle posizioni inziali di sinistra. Trieste, Fiume e Bolzano rappresentarono anche le prove di forza nei confronti dell’ordine liberale, rispettivamente con l’incendio del Balkan, il colpo di stato contro gli autonomisti di Zanella e la mobilitazione contro il sindaco tedesco del capoluogo altoatesino». Falliti i tentativi di snazionalizzazone delle comunità slave (a fine anni Venti erano ancora in funzione scuole con lingua d’insegnamento slovena o croata), negli anni Trenta si cercò di fascistizzarle, puntando alla fedeltà al regime in cambio delle opere pubbliche che avevano interessato il territorio (bonifiche, strade ed acquedotti): «Parlare di queste politiche nei confronti degli slavi non significa giustificare le successive stragi delle foibe, bensì contestualizzare gli opposti nazionalismi»

Dopo che Pupo ha evidenziato che il problema delle minoranze tra le due guerre mondiali è europeo («La Polonia attuò a riguardo politiche differenti, assimilatrice degli ucraini e discriminatrice per i tedeschi, ma entrambe sono cattive pratiche»), Oliva ha voluto contribuire a questa contestualizzazione ricordando le responsabilità italiane nella Seconda guerra mondiale combattuta a fianco della Germania e invadendo altri Stati: «Nella Jugoslavia occupata dagli italo-tedeschi nell’aprile 1941 sarebbe presto sorta una resistenza a guida comunista che si sarebbe compattata anche individuando un nemico comune: i tedeschi prima o poi se ne sarebbero andati, gli italiani invece rappresentavano un antagonista radicato sul territorio. Le truppe italiane di occupazione allestirono campi di internamento e compirono rastrellamenti, sicché a guerra finita la Jugoslavia chiese di processare 2000 tra ufficiali e funzionari pubblici, per salvare i quali l’Italia rinunciò a chiedere di processare i responsabili dei crimini compiuti contro i propri connazionali»

Crimini che ebbero inizio nell’autunno 1943, con la prima ondata di foibe, su cui si è soffermato Spazzali: «La notizia dell’armistizio colse di sorpresa i nuclei partigiani croati che operavano attorno al Monte Maggiore, costituiti da nazionalisti a suo tempo esfiltrati nel Regno di Jugoslavia e poi tornati clandestinamente per svolgere propaganda. Chiedendo istruzioni ai propri referenti in territorio ex jugoslavo, vennero fagocitati dalla resistenza comunista che aveva peraltro sposato le loro rivendicazioni territoriali. Un noto poeta della comunità croata istriana disse che contro gli italiani avrebbe indossato nuovamente il cappello dell’esercito austro-ungarico di Francesco Giuseppe aggiungendoci la stella rossa» Fu lo sbandamento del Regio Esercito dopo l’8 settembre a dare a questi nuclei il coraggio di colpire gli italiani che si erano chiusi in casa e non avevano ricevuto armi per difendersi da soli

DI crepuscoli a settembre tutta la rovina è la testimonianza autobiografica, curata propria da Spazzali, della poetessa triestina Lina Galli che in queste stragi perse un fratello: qui si evincono lo sbandamento e la paura che colsero l’italianità istriana, a partire dagli inquietanti falò che apparivano di notte sulle coline attorno a Parenzo, per giungere ai processi sommari ed alle eliminazioni che si consumarono nel castello di Pisino: «Spesso i detenuti venivano liberati pagando un riscatto, poiché gli insorti non erano gli eroici partigiani descritti dalla retorica titina – ha specificato Spazzali – bensì personaggi che volevano approfittare della situazione. Eliminazioni mirate avvennero a scapito dei dirigenti delle miniere dell’Arsia (per responsabilità risalenti all’incidente del 1940 che costò la vita a decine di minatori) e di rappresentanti della società civile colpiti per lasciare privi di guide gli italiani. Le vittime in totale furono tra le 500 e le 600, una cifra che può sembrare piccola, ma sufficiente per generare paura e smarrimento nelle varie località istriane» Dove i presidi di carabinieri o finanzieri rimasero con le armi in pugno o dove emersero figure carismatiche come Don Marzari, il quale convinse i tedeschi a non bombardare Capodistria che ritenevano erroneamente piena di partigiani, i danni furono limitati.

Sulle foibe della primavera 1945 si è invece soffermato Pupo: «Verso la fine della guerra c’erano ancora partigiani slavi che combattevano in clandestinità, ma ormai la rinascente Jugoslavia di Tito aveva un esercito regolare che avanza da sud ed aveva l’obiettivo di raggiungere almeno l’Isonzo. Nelle terre conquistate oltre i vecchi confini, già nell’estate del 1944 era stato spiegato come comportarsi. Nel settembre ‘43 assemblee popolari svoltesi a Gorizia e a Pisino indette da autonominati rappresentanti del popolo avevano proclamato l’annessione alla Jugoslavia, per cui nella primavera del ‘45 i poteri popolari si sarebbero scatenati contro i nemici del popolo, cioè chi si era opposto o avrebbe potuto opporsi a tale annessione» Nemico del popolo però è un termine stalinista ed ancor prima leninista molto ampio: vi rientrarono pure i collaborazionisti che a decine di migliaia cercarono di scappare in Austria, ma furono massacrati con le loro famiglie in un numero che oscilla tra 60 e 100.000; analogamente “fascista” per la cultura politica titoista designava tutti coloro che avevano militato nelle organizzazioni fasciste, chi aveva collaborato con i tedeschi dall’interprete alla spia, e chi rappresentava il potere italiano: «Il regime aveva dato disposizione di epurare subito, non su base nazionale ma politica, cioè colpendo i personaggi più importanti che potevano opporsi al nuovo ordine: arresti, esecuzioni sommarie, deportazioni e campi di prigionia in cui si moriva di fame avrebbero provocato nuove vittime, che sono state non meno di 2.000 ma non arrivarono a 10.000».

Oliva ha quindi voluto ricordare l’episodio di Porzus, la strage dei partigiani bianchi della brigata Osoppo ad opera dei combattenti della brigata Garibaldi Natisone (l’unica ad essere passata alle dipendenze dei comandi militari jugoslavi) il 7 febbraio 1945: «Si trattava di uno scenario simile a quello che avvenne in Grecia dopo la liberazione, con gli scontri tra nazionalisti e comunisti, un problema che gli angloamericani non vollero affrontare di nuovo, sicchè preferirono concentrare la propria avanzata verso Milano e Torino per poi arrivare a Trieste senza interferire con l’operato dell’amministrazione filojugoslava»

Si tratta comunque di pagine di storia rimaste troppo a lungo sconosciute: «L’istituzione del 10 febbraio compensa l’assenza della narrazione nei manuali scolastici per quasi mezzo secolo – ha rilevato Parlato – Pupo, Spazzali e pochi altri ne parlavano, ma come fenomeno locale: due generazioni di italiani non sono state informate. Il Giorno del Ricordo non impone una verità ufficiale, bensì ricorda ciò che non è stato ricordato, come ad esempio le sofferenze degli esuli dal 1946 nei Campi Profughi, gli ultimi dei quali sono stati chiusi negli anni Settanta. Solamente il Movimento Sociale ne parlava, anche per uscire dalla dialettica dell’antifascismo e proporre la contrapposizione comunismo-anticomunismo». Il compito principale del Giorno del Ricordo è pertanto quello di informare e lo sta facendo sempre più diffusamente: l’incontro Mattarella-Pahor davanti alla Foiba di Basovizza rappresenta secondo Parlato il frutto principale di questo processo di informazione che lo stato deve dare dopo avere occultato per 60 anni questo problema.

«Questo vuoto di memoria pubblica è stato riempito dai testimoni – ha aggiunto Pupo – i quali hanno trasmesso memorie in maniera soggettiva, diffondendo percezioni che si sono consolidate. Nella difficoltà di addivenire ad una memoria comune in area adriatica, bisogna adesso riconoscere che entrambe le memorie sono legittime».

Oliva ha completato il quadro: «Abbiamo bisogno di un ripensamento sostanziale della nostra storia riguardo la Seconda guerra mondiale, di riconoscere le responsabilità collettive della classe dirigente italiana al di là del fascismo. Il 25 luglio del 1943 con la caduta di Mussolini qualcuno ha creduto di potersi rifare una verginità, tanto più che i giovani andati a combattere nella Repubblica Sociale hanno consentito di trascurare chi è stato fascista fino al 25 luglio. Sono stati inoltre considerati fascisti gli esuli giuliano-dalmati, che in realtà sono stati gli unici a pagare per intero il prezzo di una guerra persa da tutti gli italiani»

Lorenzo Salimbeni 

 

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