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Le contraddizioni eredità della ex Jugoslavia (Il Piccolo 04 mar)

L’EREDITÀ DELL’EX JUGOSLAVIA
Ritorno a Prozor, buen retiro di tanti criminali di guerra
Prima del conflitto e delle pulizie etniche i musulmani erano l’80 per cento, adesso solo alcune centinaia

di AZRA NUHEFENDIC

Sabato scorso, la partita di pallacanestro, non si è giocata, come di consuetudine da anni a Prozor, cittadina nella Bosnia Erzegovina centrale. Il giocatore chiave, Darko Dolic, è stato arrestato. È “un personaggio”. La reputazione, Dolic la deve alle sue partite giocate durante la guerra in Bosnia. A soli vent’anni si era distinto: torturava i musulmani, saccheggiava le case, stuprava le donne musulmane. Adesso, in prigione, è accusato per i crimini di guerra.

Per smaltire i chili accumulati dalla vita sedentaria, di sabato giocava a pallacanestro, con quelli che erano sopravvissuti al suo eroismo. «Ma lo sapevate che era un criminale di guerra?», chiedo stupita a un giocatore della squadra avversaria. «Beh… sì… niente… cosa potevamo fare… la vita va avanti», balbetta quello che all’epoca della guerra aveva quindici anni. Lui stesso con il papà e gli zii finì nel campo di concentramento Dretelj, vicino a Mostar, che i croati bosniaci avevano allestito per i loro fino-a-ieri alleati musulmani.

Prima della guerra i musulmani costituivano l’80 per cento di circa ottomila abitanti di Prozor. Oggi ne sono rimasti alcune centinaia. Nei villaggi intorno prevalevano i croati. Per un periodo avevano combattuto insieme contro i serbi. Quando fu chiaro che i piani per risolvere la guerra in Bosnia Erzegovina prevedevano la divisione del Paese, i croati si sbrigarono a prendersi la propria parte. Nel novembre 1992 ”The New York Times” scriveva: «Oggi Prozor è una città fantasma. La maggioranza dei musulmani è uccisa, messa nei campi di concentramento, altri si nascondono nelle montagne vicine. Nell’ufficio postale di Prozor, era affisso l’avviso: Vietato ai musulmani».

A Prozor non ci va chi non deve. Ci sono tornata dopo quasi trent’anni. Capisco perché i criminali di guerra hanno scelto quel posto per starsene tranquilli. È un luogo che ti fa provare claustrofobia, e dopo mezz’ora di permanenza, sei nel panico perché non sai bene come fare ad andartene. Sono nata là, dovevo presentarmi di persona per un documento. Negli uffici alcuni impiegati, croati, si ricordano della mia famiglia. Sono gentili, cercano di aiutarmi. Ma nell’aria restano sospese le parole non dette, la verità taciuta appesantisce i rapporti.

Poi, alla stazione di polizia, una certa Jagoda si ricorda di mia sorella, grazie a lei ottengo in un’ora, il documento per il quale altrimenti avrei dovuto perdere almeno due giorni. Il palazzo della polizia è lo stesso di sempre. I muri sono grossi, le stanze piccole, sotto i passi il pavimento scricchiola. È lo stesso dove nel 1948, nel periodo dopo la spaccatura tra la Jugoslavia e la Russia, venne rinchiusa la mia zia paterna Halima, prima di essere spedita sull’Isola Calva. All’epoca nessuno della famiglia osava chiederle cosa fosse successo, e lei stessa, non aveva la più pallida idea del perché l’avessero imprigionata. Nella stazione di polizia, durante l’ultima guerra, alcuni miei cugini furono rinchiusi, picchiati, e poi trasportati in campo di concentramento.

Tutto è molto cambiato a Prozor dall’ultima mia visita. Oggi la cittadina è divisa: fino al bivio risiedono i musulmani, dopo ci sono le case dei croati. Anche le scuole sono divise per etnie. Quando giocano il calcio, la squadra croata e quella bosniaca, i musulmani di Prozor restano a casa, serrano le porte, chiudono i bar e i negozi, e cercano di farsi invisibili, finché per le strade altri urlano e minacciano «Questa è la Croazia».

Riconosco la piazza con la chiesa cattolica, innalzata negli anni Settanta. Alla costruzione hanno contribuito anche i musulmani. Era un’usanza tra buoni vicini, aiutarsi a vicenda. Quando i musulmani hanno ristrutturato l’antica moschea anche i croati vi avevano contribuito economicamente. Tutto passato. Ai musulmani, quelli rimasti a Prozor dopo la guerra, basta e avanza la moschea antica, oggi in stato miserabile. Invece di restaurarla, ne stanno costruendo una nuova “per dispetto”, mi dice un musulmano del posto.

Mi siedo in un bar, i clienti mi guardano, sono una sconosciuta per loro. Comincio a parlare con due giovani, del tavolo accanto. Chiedo informazioni su un’amica, dico il nome croato, «Ah, non la trovi qui, in questo bar ci vengono solo i musulmani». Domando se è vero che il criminale Dolic viveva lì liberalmente. «Sì, è vero, e non è l’unico», risponde uno dei due ragazzi, indifferente come se mi riferisse l’ora esatta. Li diverte il mio stupore, e uno, per impressionarmi, dice che lui stesso va a caccia con un gruppo in cui ci sono anche dei criminali di guerra. Poi in silenzio guarda fuori dalla finestra, e con un cenno della testa mi indica un poliziotto che sta passando davanti al bar. È uno robusto, un «armadio con due ante», si dice in Bosnia per descrivere i nerboruti. «Anche lui è un criminale», dice il mio interlocutore. Poi spiega che di recente è apparso un video in cui si vede quel poliziotto insieme ad altri attaccare Heldovi, un villaggio di musulmani, vicino a Prozor. Oggi è un paese fantasma, nessuno ci è più tornato.

A lavoro finito, vado a trovare un’amica di famiglia, la signora Ankica. Ci sentiamo per telefono spesso, anche se sono almeno trent’anni che non ci vediamo. Non riesco ad orientarmi, chiedo a uno che passa se qui abita Ankica. Dice, di sì e mi indica la porta al primo piano. Suono, mi apre ed entro come si entra a casa di amici, vado diritta in salotto, mi accomodo sulla poltrona, chiacchieriamo, mi offre il caffè, un pezzo di torta appena fatta. Si parla del più e del meno, della situazione a Prozor, dice che intanto è un deserto qui, l’hanno ripulito dai musulmani ma adesso scappano anche i croati. Noto che non mi saluta con un bacio, non mi invita per il pranzo, mi pare più giovane di quello che ricordavo, ma penso che tutto cambia, anche le persone. Dopo un’ora, scappo. Alle quattro del pomeriggio dovrebbe passare una corriera, ma non mi fido, e per la strada verso la stazione degli autobus cerco qualcuno per un passaggio. Una macchina è accostata, c’è uno al volante, un altro sta per entrare, chiedo se per caso vanno verso Jablanica, la città crocevia. Sì, va bene un passaggio. Sono due giovani, anche loro robusti, dentro la macchina devono abbassare la testa per starci. «Come si vive a Prozor?», chiedo. «Bene», dicono all’unisono.

A Jablanica, aspetto per un po’, non vorrei trovarmi costretta a fermarmi per la notte, faccio autostop. Si ferma un camioncino. «A Sarajevo… bene… monta su», mi dice l’autista. È un camion-frigorifero, tipo fai da te, trasporta pesce, me ne sono accorta subito. L’autista parla volentieri. Dice che è in pensione, è un invalido di guerra, ma lavora ancora, la pensione è bassa, i figli disoccupati. «Poteva andar peggio», dice, e scoppia a ridere. «Eh siamo veramente stupidi, noi bosniaci, ci consoliamo con la miseria, perché poteva andar peggio», dice il nuovo conoscente.

Verso le otto siamo a Sarajevo. A casa mi svesto per liberarmi dell’odore di pesce, suona il telefono. È la mia amica Ankica, da Prozor. «Ti ho aspettato tutta la giornata, ho preparato il pranzo, riscaldato la camera, speravo di vederti…», elenca tutto quello che aveva fatto per me. L’ascolto e mi rendo conto di essere stata a casa di Ankica, ma di un’altra, del tutto sconosciuta. Chiudo il telefono. Incredula, mi fermo per un istante con la cornetta in mano. «Poteva andar peggio», penso, e mi metto a ridere come un’isterica.

 

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