romanoconversano

La morte del pittore rovignese Romano Conversano (puntodistella.it 23 lug)

BIOGRAFIA – Romano Conversano è nato il 30 settembre 1920 a Rovigno d'Istria da padre pugliese e madre istriana, figlia del pittore Giuseppe Bino. Compiuti gli studi all'Accademia di Belle Arti a Venezia, insegna per alcuni anni a Pola. Durante la guerra, pur impegnato nella Resistenza, trova il modo di organizzare a Belluno un cenacolo di giovani artisti fra i quali Tancredi e Romano Parmeggiani. Si lega d'amicizia con Emilio Vedova e Rodolfo Sonego. Dal 1946 al '54 risiede a Rovereto, animando l'ambiente artistico e culturale della vivace città trentina. Dopo viaggi di studio in Francia, Spagna e Fiandre, che rappresentano nella sua pittura altrettanti "periodi", si stabilisce nel 1954 definitivamente a Milano, dove tuttora vive e lavora partecipando alle maggiori manifestazioni artistiche. Nel 1957 restaura un piccolo castello a picco sul mare a Peschici, nel Gargano, dove si ritira quando può a contatto con una natura solare e primitiva: è il periodo dedicato alla "Puglia antica" contrapposto a quello delle "Donne d'oggi" del Nord con i loro problemi esistenziali. Nel 1974 gli viene conferito l'Ambrogino d'oro dal Comune di Milano. Dal 1980 è membro dell'Accademia degli Agiati di Rovereto.

PESCHICI – Sono trascorsi 52 anni e il ricordo non si è cancellato. A sentire il nome di Romano Conversano non c‘è anima di Peschici che non vibri. Anche qualcuna appartenente all’ultima generazione, educata al rispetto dell’uomo e dell’artista da genitori e nonni. E’ il 1958 quando l’istriano di Rovigno – chissà come, chissà perché – si spiaggia su questo lembo marino di terra garganica e decide di acquistarne il Castello (o di quanto ne rimane) che presto diventa passaggio obbligato di artisti e intellettuali, italiani e stranieri, dando il via a quel fenomeno che diventerà turismo di massa fra meno di dieci anni. Un viatico che non si è esaurito nel tempo.

Alta sulla rupe a strapiombo (84 metri), l’ex fortezza eretta a contrastare gli assalti dei nuovi Fenici – saraceni e turcheschi, – esposta a due diverse direzioni di vento, gli offre il destro – dando seguito a una formidabile intuizione – di sentirne il fiato inserendo un bastone nella fessura di due pietre della parete esterna, sotto una finestra, dal quale lascia penzolare corde di chitarra che si trasformano nella sua “arpa eolia” e al soffio del gelido e violento grecale producono sibili pronti a diventare suoni rabbrividenti ma ben presto in grado di trasformarsi in armonie e composizioni ultraterrene.

Dopo qualche estate passata nella rimodernata magione, non volle più mettervi piede. Fatti suoi! Dovettero superarsi tantissimi anni prima che una voce a lui sconosciuta ma fornita di valido passaporto (un’altra voce, quella della donna sposata da chi scrive e di Conversano giovanissima modella nel periodo peschiciano, nonché amica della figlia Margherita) non lo convincesse a tornare con la “scusa” di una Personale nelle segrete ristrutturate del non più suo Castello.

E’ il 2002. Ed è in quella occasione che avemmo netta la sensazione di accompagnarci a un uomo indimenticato. A decine gli indigeni, nei cui cuori aveva lasciato un solco indelebile, che riconoscendolo – e come poterlo ignorare – lo fermavano, gli tendevano le braccia, lo arpionavano come piovre tentacolari in amplessi furibondi, lo baciavano, lo stringevano al petto, se lo allontanavano un istante per meglio godersi il volto di brigante “trampigno” e tornavano a stringerselo al petto. Anziani, donne e uomini indifferentemente, 40-50enni, 30enni, e giovani figli di costoro che ne avevano ascoltato in casa imprese e intraprese.

Un mito, per la gente, con alcune delle cui vite aveva intrecciato la sua senza badare a vacui formalismi e distinzioni di censo intellettuale. Una memoria incancellata per molti coi quali aveva intrapreso “frame” di cammini paralleli e divergenti mai interrotti, mai spezzati, neanche dal tempo, nemmeno dalla lontananza di chilometri. Una meteora mai frantumata e consumata dall’attrito di atmosfere diverse e contrastanti. Una figura stagliata nel vissuto di un popolo non ricco di beni materiali ma provvisto di una umanità sconfinata, modesto e umile. E lui, che di modesto e umile poteva avere ben poco, non per dna ma perché illuminato da fama e successo, diventava come loro, come lo era stato decenni prima. Un gigante dal cuore buono della cui magnanimità alcuni avevano beneficiato e mai approfittato.

Il periodo – quasi un mese, l’inizio di quella estate del 2002 – passato con chi racconta divenne così quasi un testamento spirituale. Dall’anima sua lievitarono memorie e ricordi, persone e lotte, avventure e peripezie, donne e amori. La “fuga” dall’Istria, la militanza partigiana, l’iniziativa culturale roveretana, le unioni, i figli, e l’intero coacervo di sensibilità artistica, autogestione ed elaborazione del successo che non aveva mancato di affacciarsi – e non poteva essere altrimenti – sul suo viaggio esistenziale. Le prime sconfitte, le prime soddisfazioni, le prime cadute, le favolose vendite delle sue opere, le quotazioni che toccavano picchi meritati… le delusioni e le illusioni. La sua vita! Tutto riportato in una serie di acrostici che la sua verve, la sua “joie de vivre”, ci stimolarono e sollecitarono.

Uomo degno di essere chiamato tale, artista degno di essere chiamato tale, sono tante le case peschiciane che gelosamente custodiscono una sua opera, donata, mai venduta, contropartita di un piccolo favore: un lavoretto di muratura, un piatto di pancotto, un assaggio di olio garganico, l’amore di una verdura locale, il frutto di un orto, una zuppa di pesce di trabucco… Il “trabucco”! Il suo soggetto preferito, minuziosamente “descritto” da un pennello magico, miniatura di uno spaccato di cultura marinara in cui ha profuso la linfa che l’ha sempre agitato e continua – ci scommettiamo – ad animarlo ancora oggi, ancora adesso che non è più fra noi.

E accanto al trabucco, temporalmente prima del trabucco, la fortunata vena creativa della sua “Puglia antica”. Opere “nebulose”, dove nulla è chiaro e distinto eppure tutto è chiaro e distinto. Nuvole di case addossate le une alle altre con sfumature pastello di colori che solo lui sapeva comporre sulla tavolozza. L’omaggio a una landa di cui si era innamorato e nella quale aveva lasciato alcune pileorize di qualche radice, altrimenti non sarebbe tornato quel 2002, dopo oltre quarant’anni di assenza. E “Ritorno a Itaca” fu appunto il titolo che demmo alla sua mostra, allestita e curata per lui e con lui.

Un “ritorno” di cui non riuscimmo mai a captare l’eventuale sofferenza o nostalgica malinconia, ma ritenendole esistenti e presenti, se non persistenti, tentammo di alleviare con una serie di accorgimenti che gradualmente partorirono una forma di affetto dimensionata dalla nuovissima conoscenza, dall’ignoranza l’uno dell’altro, i cui veli avevano cominciato a squarciarsi. Fino a sorprenderlo con la cerimonia istituzionale della “cittadinanza onoraria”. Mai sala comunale fu stracolma e ridondante di amorosi sensi. Nelle pieghe dell’aria che si respirò in quell’occasione – nuova per una Peschici diventata sonnolenta e apatica a cospetto delle emozioni – filtrarono sensazioni capaci di attanagliare le viscere.

Dall’insorgere di aneddoti mai persi nella sua memoria scaturì lo spaccato di un paese che ormai viveva solamente dentro di lui, non vissuto da tanti e violentato dalle moderne vicende caotiche in cui alcuni sono naufragati. E nelle menti di ognuno si formarono fotogrammi di un tempo abbandonato al tempo, scene medievali di rara bellezza, parole e motti stracciati dalle ore attuali, abitudini e modi di affrontare la vita ineffabili, resurrezione di storie sfilacciate dall’euro, dall’odierna crapula. Il nuovo “cittadino onorario” – primo nelle vicende cittadine – incantò la platea e per non smentirsi concluse la “sua festa” con un… “vaffa”, legato al saluto di una piccola “saracena” lanciato nel momento della sua partenza dal paese. Un “vaffa” che non era insulto, ma atto d’amore dichiarato da una bambinetta scalza e stracciata che vedeva allontanarsi il suo idolo. Un pagano e arabeggiante addio di chi lo aveva adorato da lontano, senza mai avvicinarlo, se non nel momento di vederlo con le valigie in mano.

Con lo stesso significato e sentimento, vorremmo rilanciargli oggi quel “vaffa”… ma il cuore è stracolmo di pena e dolore!

Piero Giannini

 

 

 

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