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La mia Trieste che non c’è più (Il Giornale 09 feb)

Sono nata a Trieste, ma vi ho vissuto solo due anni, dal 1946 al '48, dal ritorno dalla prigionia africana a Saida di papà fino ad inizio della mia prima elementare.

«Fortunata lei che è nata in una città tornata all'Italia», disse una volta il fiumano Fulvio Mohoratz presidente Anvgd. Nel tempo Trieste è diventata la città di un mio «mito». Mi spiego. Allora gustai la cioccolata simile alla nutella che i soldati americani nel dopoguerra davano a me come ad altri bimbi quando ci recavamo a Barcola per i bagni estivi. Da allora per me l'America ha gusto buono di cioccolata al di là delle sue bandiere bruciate, calpestate in altri Paesi. Per me, studiando, è rimasta il rifugio dei Padri Pellegrini e madre di democrazia.

Per non andar fuori tema: allora Trieste è stato il luogo dove mia madre dava un piatto di minestra ad un povero che bussava da noi. Quanti i poveri nella città di frontiera?

Da allora per me è città-simbolo di tolleranza con le sue tante chiese di culti diversi: San Spiridione Serbo-Ortodossa, S. Nicolò Greco-Ortodossa, la Neogotica Evangelica Augustana, S. Michele Anglicana, la Sinagoga di S. Francesco E oltre alla città vecchia, ebraica, ha la dolente Risiera S. Sabba, un tempio dove pregare per il futuro.

La dominano la Cattedrale e il Castello di S. Giusto martire, per la sua festa coperto di vite rossa. Nel bianco Carso quando la vite vergine rosseggia si dice: «È il sangue dei nostri martiri». La domina il Santuario del Grisa dove ho trovato un dépliant con il testamento dell'Arcivescovo Antonio Santin, testimone di due guerre mondiali: «Ho assistito allo strazio della mia povera terra e delle nostre buone popolazioni. Le foibe sono calvari con il vertice sprofondato nelle viscere della terra… Quello che tutti ci unisce e ci fa ricchi è l'amore».

Tre ricordi importanti questi, ma Trieste ne ha per me di legati alla bora, al suo mare, alla sua luce. Il vento che soffia forte mi vivifica: il ricordo si lega a quando il nonno, un salutista, ci portava in giro nelle giornate di bora e per attraversare le strade facevamo «catena» con gli altri: per mano perché «insieme si può». Il vento per me ha il senso di libertà, si associa a solidarietà, anche ad indipendenza. Questo perché allora, pur così piccola quando mi mandavano sotto casa a comprare la birra alla spina, capii cosa vuol dire avere un compito proprio da svolgere: mi sentivo importante! Abitavamo in via dello Scoglio, una stradina periferica che si affacciava sulla Birreria Dreher, a due passi da via dell'Acquedotto dove vivevano nonno e zii. Oggi si chiama via XX Settembre, un tempo strada del passeggio oggi invasa da auto in sosta. Alla birreria Dreher, di festa, i triestini si riunivano sulle panche per un panino e un bicchiere sotto certi stupendi affreschi «ubriaconi». Di festa con pochi soldi erano tutti fuori: splendida socialità! Oggi la Birreria è un Centro Commerciale uguale a tutti.

Trieste allora non era solo questa festa: quando per il 4 novembre i miei esponevano il Tricolore, con un fazzoletto bianco cucito sopra lo stemma sabaudo, scendevano gli slavi dal Carso a tirarci pietre ai vetri. Una volta un donnone slavo quando mia madre in bicicletta incuneando la ruota nelle rotaie del tram cadde, le gridò: «Crodiga di un'italiana» che sta per la cotenna del maiale. Nel '48 papà decise di portarci a Genova, più tranquilla e con il mare.

Inverno 1948: sul treno del nostro esodo mio fratello cantava a fior di labbra «No ghe esisti un altro paradiso più splendido de ti, Trieste mia». Un suo compagno, quando ci furono le proteste del 5/6 novembre 1953 e migliaia di triestini scesero in piazza contro il piano anglo-americano che voleva fare della città una base navale, fu tra i giovani uccisi nella sparatoria. Poi con gli zii, a Trieste, i miei ne parlavano sottovoce per non farci sapere.

Eravamo tornati ogni anno come in pellegrinaggio, e alla vigilia del 4 novembre '54, ritorno di Trieste all'Italia, nell'unica stanza d'albergo dove dormimmo tutti e quattro, mio padre andò avanti e indietro tutta la notte. Il giorno dopo di tempo uggioso, i bersaglieri in corsa tra la folla scaldavano come il sole. E quel 5 per cento di sloveni che temevano ripercussioni simili a ciò che loro avevano fatto, dovettero ricredersi: non gli fu torto un capello.

Ancora una cosa: se penso alla bellezza, vedo il Castello di Miramare di Massimiliano e Carlotta D'Asburgo sotto cui andavamo a fare il bagno. Racconta «La fanciulla di Giralba», leggenda trentina, che se una donna muore nel partorire saprà il destino del figlio: a dirglielo compare un pesce con una pergamena dove campeggia quel Castello del dolore. Mi sembra di risentire recenti parole di monsignor Ravasi al Ducale: nell'Apocalisse, Gerusalemme, la sposa dell'Agnello, cieca, incinta, incatenata davanti alla città del Male, è la spina di luce del Bene. La mia Trieste che ha sofferto (i 40 giorni di occupazione titina quando un Comunicato Alleato denunciò: «Da Trieste sono scomparsi 2260 italiani», i 1200 esuli per lavoro in Australia ai primi del '54 con la Castel Verde) è quella spina luminosa.

Per lungo tempo a Genova o altrove, mi sentii sradicata, straniera. Ad una partita della Triestina ad un goal si alzò il grido: «Titini, slavi!». Da allora accompagnai mio padre allo stadio per un patto: ogni volta mi regalava un libro e leggevo, finché un giorno a 18 anni, alla fine della partita vidi un ragazzo indicarmi alla fidanzata con un «ha letto tutto il tempo». Arrossii e mi trovai anch'io il fidanzato con cui uscire ed esser dispensata dalla partita.

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