La bimba con la valigia: «Ora rivedo quell’orrore, sognavo un futuro diverso»

Egea immortalata nella foto diventata emblema dell’esodo giuliano. Oggi vive a Rovereto. «Un dolore immenso, la guerra ucraina mi ha fatta ripiombare nell’incubo da cui sono scappata nel ’46. La storia non insegna nulla»

Ha il nome del mare, il mare che ha attraversato scappando da Pola, la sua città in Istria, per mettersi al sicuro in Sardegna e poi a Bolzano.

Egea Haffner è «la bambina con la valigia», esule giuliana numero 30001, immortalata nella foto diventata simbolo della fuga degli italiani dalle persecuzioni di Tito alla fine della seconda guerra mondiale.

È il 6 luglio 1946, non ha ancora 5 anni, con la madre è costretta a lasciare tutto, «la casa, gli amici, la scuola, le cose, le mie cose, i miei posti, i miei affetti, disperata perché papà era sparito da un anno, la sera del 4 maggio del ’45 era stato prelevato da tre soldati titini mentre ci stavamo preparando per la cena, gli avevano detto “è solo un attimo, la portiamo al Comando per delle formalità“, non l’abbiamo più visto. Ma io l’ho aspettato ogni giorno. Non si è mai saputo che fine abbia fatto, per me e la mia famiglia nessun diritto alla verità, abbiamo pagato la colpa di essere italiani». La voce si rompe: «È stato inghiottito dalle voragini carsiche, infoibato nel buio della terra, la sua è una delle tante tombe mancate ma io allora ero piccola e scappare dall’Istria era come abbandonarlo due volte: se fosse mai tornato, non ci avrebbe più trovate».
Egea oggi ha 80 anni e lo stesso dolore di allora: «Sognavo un mondo migliore. Era la speranza l’unica cosa che mi restava mentre lo zio mi fotografava con l’ombrello e la valigia in mano, vestita con l’abito buono della domenica, i capelli ben pettinati, il numero sulla valigia era il mio “marchio“ di esule giuliana: stavo partendo per un viaggio senza ritorno, quello scatto ha immortalato sulla pellicola la mia storia di perseguitata, il destino di un popolo martoriato, infoibato e costretto all’esodo per continuare ad esistere. Quella foto è l’addio alla mia infanzia, a mio padre, alla mia serenità di bambina. La storia, oggi, si ripete».

Quella foto torna prepotentemente attuale davanti al dramma dei profughi ucraini che fuggono dalla guerra. Il suo «viaggio senza ritorno» da Pola è lo stesso di chi scappa dalle bombe russe?

Sì, è così, sto provando grande sofferenza davanti alla tragedia dell’Ucraina, tremo davanti a queste mamme che mollano tutto per portare in salvo i loro bambini, creature indifese come lo ero io, con lo zaino in spalla che contiene ciò che resta del loro mondo come io avevo il mio dentro a quella piccola valigia di pelle: sono mamme disperate ma fiere, sanno che solo così possono sperare nel futuro, hanno lo stesso coraggio che ebbe mia madre Ersilia a portarmi in Italia, sapendo che avremo dovuto ricominciare tutto da capo in un paese straniero. Senza niente, da sole, sempre e per sempre esuli, ma con una seconda possibilità.
È un dolore continuo, il mio, che si è acuito in queste settimane davanti al disastro di questa folle guerra a neanche duemila
chilometri da noi. La storia si ripete dopo 76 anni, con lo stesso orrore, con la stessa brutalità, non ci ha insegnato niente: io sento la lama che affonda di nuovo nella pelle, aprendo ancora di più le ferite mai chiuse dal 1946. Io quel 6 luglio, giorno della partenza da Pola, ho capito tutto: che ero orfana di padre e che avrai fatto per sempre i conti, per tutta la vita, con l’odio subìto dal mio popolo.

La sua storia è quella di chi sta arrivando oggi in Italia solo con la valigia, come successe a lei nel ’46. Si può superare la tragedia della guerra?

Non si dimentica, non si può; non si perdona, non si può; ma si può continuare ad andare avanti e credere di poter rendere il mondo un poco migliore facendo memoria, testimoniando, raccontando, parlando, senza cadere nel gioco di chi ti sfrutta per fare propaganda. Io ho rinunciato alla cittadinanza onoraria quando ho capito che era solo per “par condicio“ politica rispetto ad altri perseguitati della storia. Perché i morti sono tutti uguali, non hanno bandiera. Solo chi subisce tanta disumanità, solo chi viene eliminato e ucciso perché appartenente ad un popolo, solo chi è vittima delle grandi dittature della storia, di tutte, solo chi deve scappare dal proprio Paese per non morire, può comprendere fino in fondo cosa stiano vivendo gli sfollati ucraini.
Io lo so. Ed è diverso da chi, ad esempio, emigra: io sono un’esule, non una migrante.
La differenza è enorme: da una parte c’è la disperazione, il dolore, la necessità di fuggire perché non ci sono alternative, chi invece parte per scelta, pur tra mille difficoltà, lo fa perché vuole migliorare la propria esistenza, ma ha sempre la sua casa, la sua patria, le sue radici ad attenderlo: se vuole, può tornare. Gli esuli come me, invece, i profughi come gli ucraini, vanno via per sempre, sanguinanti, disperati, tutto ciò che lasciano non tornerà più. Non dimenticheranno mai.

Lei è rimasta la bambina «esule giuliana 30001» di quella foto. Lei è rimasta a Pola…

Non ho scordato nulla. Ho nella testa e nel cuore tanta tristezza e tanti pianti. Dopo l’esodo, già di per sé una tragedia, anche l’esilio è stato drammatico. Sono stata prima in Sardegna ospite di una zia a Cagliari e poi, sempre con mia madre, siamo finite a Bolzano dove c’era mia nonna. Non avevamo una casa, dormivamo per terra su coperte che lo zio stendeva nel suo negozio.
Da lì, con fatica, abbiamo ottenuto un appartamento da dividere con altre tre famiglie.
Ci siamo rimesse in piedi ma restavamo comunque sempre profughi, diversi, anche a guerra finita. È un marchio, un bollo, che ti mina profondamente l’anima. È un dolore che non ti lascia più, lo stesso che vedo negli occhi di questa gente che scappa dall’odio di chi ha deciso di fare una guerra senza motivo, di cacciarli perché quella terra è sua, uccidendo chi si oppone, sganciando bombe sulle case, sugli ospedali, sparando sui bambini. Di Tito evidentemente non ce n’è stato uno solo: le dittature, di destra o sinistra non importa, sono inaccettabili.
E oggi Putin sta compiendo un crimine contro l’umanità. Noi siamo stati vittime dell’eccidio solo perché eravamo italiani e come tali per definizione fascisti, nemici del regime jugoslavo comunista; oggi gli ucraini, popolo indipendente, sono finiti nel mirino del presidente russo che ha deciso di invadere uno stato sovrano. La storia si ripete e non insegna nulla. Bisogna fermare questo orrore.

Cosa ricorda della «sua» guerra? Cosa vorrebbe dire ai bambini ucraini?

Ricordo gli allarmi, le sirene, le fughe nei sotterranei, nei rifugi, ho tutto ben chiaro nella testa, i rumori, gli odori, il buio sottoterra.
È tutto nella mia testa, nei miei occhi, ben chiaro e vivido anche se avevo pochi anni. Io lo so quanto terrore hanno dentro le creature di Kiev, di Odessa, di Mariupol.
Ho pianto davanti all’immagine della famiglia sterminata a Irpin, quei corpi senza vita sul marciapiede: una madre e i suoi due figli in fuga a piedi colpiti dai colpi di mortaio russi. Mio padre, quando lo portarono via, aveva una sciarpa blu. Alcuni giorni dopo quella sciarpa era al collo di un titino.
Storie di morte sempre uguali, di distruzione, di abominio. Nel dolore dei profughi ucraini si riflette il mio dramma di vittima di guerra, di esule, di profuga.

Come è riuscita a farcela, Egea?

Grazie ad una forte determinazione. Vorrei dire a questa gente che scappa dalle bombe di crederci. Il dolore fortifica, questi bambini saranno adulti migliori, queste donne stanno scrivendo la storia, insieme ai loro mariti. Alla fine della guerra l’Italia era distrutta e noi, pur italiani, eravamo comunque sempre trattati da esuli. Abbiamo ricevuto pochi aiuti di Stato, siamo stati dimenticati a lungo ma non ci siamo persi d’animo e siamo ripartiti da zero, da quel niente che avevamo dentro alle nostre piccole valigie. Il dolore ci ha divelti ma non ci siamo lasciati inghiottire, come hanno fatto infoibando tanti di noi. Non so dove sia mio padre, il suo corpo non ci è mai stato restituito, ma ho vissuto tutta la vita rendendogli onore e facendo tutto il possibile perché si conoscesse questa vergognosa pagina della storia. Queste donne profughe con i loro piccoli forse non rivedranno mai i loro uomini rimasti in Ucraina a combattere, i loro figli, come me, cresceranno senza un papà ma hanno la fortuna, nella disgrazia, di avere il mondo dalla loro parte, di non essere sole, di poter contare sugli aiuti internazionali, sulla catena della solidarietà e dell’ospitalità. Devono essere forti, di acciaio come dicono a me, per i loro figli. Sono bambini con la valigia, sono i veri eroi della guerra.

L’ecomuseo Egea racconta la storia degli esuli di Istria, Fiume e Dalmazia, emblema di tutti coloro che, in qualunque luogo e in ogni tempo, hanno dovuto abbandonare la loro casa, la loro terra, per cercare un luogo di pace e di serenità in cui ricominciare a vivere, lontano dalle guerre. Realizzato a Fertilia, in provincia di Sassari, è un luogo nato per tenere accesa la memoria, per conoscere gli orrori del passato. La guerra oggi ha ripreso a far sentire la sua voce straziante: i cannoni in Ucraina ruggiscono e le lacrime solcano i volti attoniti degli innocenti.
Il museo che porta il nome di Egea Haffner vuole riunire i fili spezzati dalla storia: è come un ponte che collega le coste dell’alto Adriatico con quelle della Sardegna ed ancora con quelle di tutti i luoghi nel mondo in cui esistono donne o uomini che hanno lasciato tutto per ricostruirsi un futuro di pace. Il museo ospita una «vecia Batana», piccola imbarcazione da pesca tipica dell’Istria, giunta a Fertilia nel 1948 al traino dei 13 pescherecci che trasportavano 53 famiglie di esuli. Ci sono poi le valige a testimoniare il viaggio come quello di Egea, vero simbolo della diaspora.
Accanto alla fotografia della «Bambina con la valigia», si apre una grande parete in cui fili di lana annodati dagli esuli e dai loro discendenti simboleggiano il legame che questi hanno sempre mantenuto con la terra natia.

Intervista di Camilla Ferro a Egea Haffner
Fonte: l’Arena – 13/03/2022

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