ANVGD_cover-post-no-img

Jugonostalgia: Jergovic, siamo tutti apolidi (Avvenire 23 mag)

di Vittorio Filippi

Diceva Winston Churchill che i Balcani producono più storia di quanta ne possono digerire; di sicuro continuano oggi a produrre, pur divisi e frantumati, curiosità e contraddizioni. La prima notizia è che la Jugoslavia non era ancora estinta del tutto, ma ha continuato a morire a pezzi, come in un incubo. Infatti il dominio «.yu», quello che da il riferimento ad una nazione su internet, è morto definitivamente poche settimane fa, precisamente il 30 marzo a mezzogiorno. Il Registro nazionale serbo l’ha chiuso dopo che era stato tenuto in vita da alcuni docenti della facoltà di ingegneria dell’Università di Belgrado. Addirittura il Museo belgradese di storia jugoslava ha deciso di segnare la fine digitale della Jugoslavia con una mostra: «l’idea è di celebrare il giorno in cui la Jugoslavia come Stato sparirà letteralmente. Prima scomparve dalle carte geografiche, adesso scompare dallo spazio virtuale», dice Dobrica Veselinovic, autore dell’evento (che, come chicca curiosa, presenta anche il primo calcolatore fatto cinquant’anni fa in Jugoslavia).

La Jugoslavia, com’è noto, decedette per tappe e sussulti: agonizzò nel lungo dopo Tito, iniziato esattamente trenta anni fa, si disintegrò in modo violento nel 1991, poi scomparve formalmente nel 2003 quando Serbia e Montenegro crearono una effimera Unione ed ora è morta simbolicamente anche online.

Eppure, come l’araba fenice, l’idea di Jugoslavia in vari modi oggi si ripresenta. Spesso romanticamente, come fecero gli Illiristi croati che ai primi dell’Ottocento volevano raggruppare gli Slavi meridionali. Ma anche nostalgicamente, come reazione a tempi di divisioni mentali e territoriali che non vogliono sparire. È il fenomeno della «jugonostalgia», che rimpiange – soprattutto in Bosnia ed in Macedonia – un passato comune tanto disprezzato dai nazionalismi negli anni Novanta ma oggi rivalutato da molti. Segno che la «confisca della memoria», come la chiama la scrittrice Dubravka Ugresic, non è del tutto riuscita ai nazionalismi. Così questo passato comune ritorna, fa capolino sul presente. A Belgrado si scopre oggi che ben 81 mila cittadini si dichiarano ancora jugoslavi, costituendo così la terza minoranza nazionale e scontrandosi con il ministro dei Diritti delle persone e delle minoranze che invece non vuole riconoscerla. E a Zagabria a marzo è stato fondato il movimento «Alleanza Jugoslava» (Savez Jugoslovena) che mira a recuperare una identità comune come unico antidoto ai nazionalismi balcanici ed alla tristezza del presente. C’è anche chi teorizza una «Jugosfera» (il neologismo è dell’Economist) come illuminato tentativo di lanciare nuove forme di cooperazione regionale superando le sbornie di violenza degli anni Novanta (ancora oggi, sedicimila persone scomparse sono cercate con dolore da un milione di familiari).

Eppure la post-Jugoslavia fatica a concretizzarsi, a darsi un’anima. La conferenza fatta in marzo a Brdo, in Slovenia, che avrebbe dovuto mettere insieme tutti i leader degli Stati ex jugoslavi più l’Albania (dopo quasi vent’anni di guerre!), è fallita perché la Serbia ha rifiutato la presenza del Kosovo quale Stato indipendente. La Bosnia, più ancora del Kosovo, rimane il buco nero dei Balcani: Stato assurdamente uno e bino, è tenuto in vita artificialmente dall’impegno internazionale.

Scandali, burocrazie, corruzione e crisi economica corrodono poi la vita di tanti Stati balcanici ponendoli in una situazione di infinita transizione.

Ma verso dove? Verso l’Europa, si dice comunemente. Ma nemmeno questo obiettivo è così scontato: per Bruxelles oggi i Balcani rimandano alla crisi finanziaria eurogreca e ciò basta ed avanza. E’ vero che l’Europa farà una conferenza 'ecumenica' sui Balcani il due giugno a Sarajevo. Ma già si sa che non ci sarà alcun nuovo impegno europeo per l’area, se non – forse – l’abolizione dei visti per Bosnia ed Albania.

Insomma se anche l’Europa rischia di essere un miraggio lontano (o una delusione vicina), la «jugonostalgia» invece permette di sognare: è confortante, non costa nulla e resuscita i sentimenti di un passato che non passa.

E a Zagabria il 21 marzo è stato fondato il nuovo movimento «Alleanza Jugoslava» che mira a recuperare la perduta identità comune

INTERVISTA

Lo scrittore bosniaco Jergovic: «Siamo tutti apolidi e parte di una minoranza»

da Trieste Francesco Dal Mas

Il professor Karlo Adum, vedovo e pensionato, residente a Zagabria, arriva finalmente a Sarajevo, la città natale da cui manca da mezzo secolo. E davanti alla cattedrale si lascia andare a questa considerazione. «Questa è la prova della tolleranza musulmana, la quale, come ogni tolleranza nei Balcani, è una sottile, velata forma di odio per tutti coloro che sono rimasti in minoranza». Così la pensa anche Miljenko Jergovic, che quella riflessione mette in bocca al protagonista del suo ultimo libro, Freelander (Zandonai Editore). Romanziere, poeta, giornalista, sceneggiatore, Jergovic è uno degli autori emergenti dei Balcani.

Ljiljana Avirovic, che l’ha avuto suo ospite a Trieste, non ha dubbi a definirlo il «rapsodo della terra bosniaca».

È vero che lei non si sente a casa sua da nessuna parte?

«Decifrare la mia identità personale, bosniaca, visto che sono nato in Bosnia e che la mia città è Sarajevo, così come della mia identità nazionale, ossia quella croata, è molto più complesso della chiave di interpretazione proposta dai nazionalisti di oggi. In Croazia si propone il modello per cui un bravo croato è quello che non è serbo e che odia i serbi. I serbi, invece, propongono un modello per cui un bravo serbo è quello che non è albanese e che odia gli albanesi. In Bosnia un buon bosniaco è uno che non è né ortodosso né cattolico».

Non resta che dichiararsi apolide, come succede spesso a lei?

«Io dico soltanto che questo modello è sbagliato ma molto diffuso e popolare. E sia tra i serbi che fra i croati, i bosniaci, gli albanesi ci sono molti che non saprebbero riconoscere la propria identità nazionale se non come odio nei confronti di altri. Io non condivido».

Ma perché lei si sente un apolide? E pure lo dice. Davvero non ha un’identità?

«L’identità è un tema estremamente delicato.

Nessuna opera d’arte, nemmeno un dipinto kitsch di un pittore della domenica potrebbe esistere senza un’identità. Abbiamo bisogno dell’identità ma non dobbiamo farci spaventare da nazionalisti, dai fascisti, dai comunisti, quando cercano di impadronirsi della nostra identità. Posso rivelare dei ricordi?».

Prego…

«Dieci anni fa a Trieste ho assistito a scena molto brutta. Ho visto, davanti alla sinagoga, tre carabinieri schierati per evitare che ci fossero atti antisemiti. Così mi sono sentito un po’ ebreo. Allo stesso tempo a Zagabria mi sento spesso serbo, e allo stesso modo, siccome vado spesso a Belgrado, mi ci trovo bene e mi sento un po’ croato. Una persona dovrebbe sempre sentirsi membro di una minoranza».

Ma si può essere oggi senza patria come lo è il professore Karlo Adum, protagonista del suo ultimo libro, 'Freelander'?

«Si può sempre sentirsi membro di una minoranza. Dico ciò sia per la vita che per la letteratura. Tutta la letteratura che si rispetti viene da uno stato di minoranza. Thomas Mann lo era nella Germania nazista, e così Umberto Saba in Italia. I principali scrittori serbi sono importanti se appartengono a una minoranza. Ho scritto questo libro con l’idea di essere minoranza ma questo non dev’essere inteso in senso patetico, perché anche l’essere minoranza non previene dall’essere dei bastardi».

Se il professor Adum ritornasse oggi a Saraievo, quale città troverebbe? Ancora meno plurale di quella che ha incontrato nel suo ultimo viaggio?

«In Freelander l’idea del ritorno in una città, dopo un lungo periodo di tempo, non è necessariamente collegato a Sarajevo, in fondo l’idea alla base di Freelander sarebbe potuta essere anche quella di un napoletano che ritorna nella sua città dopo una vita vissuta a Milano. Direi comunque che nella mia città di nascita, Sarajevo, mi sento più perso che in ogni altro luogo in assoluto, non riesco a sentire nemmeno quello che a volte penso di essere».

«Ma nella mia città di nascita, Sarajevo, mi sento più perso che in ogni altro luogo»

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.