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Intervista a Mario Ive, presidente di ANVGD Cremona

«Come granelli di un salterio» è l’icastica metafora con cui la studiosa e docente Rossana Mondoni ha descritto i massacri detti delle “foibe”, di cui furono responsabili i partigiani del maresciallo Josip “Tito” Broz, ed il conseguente esodo italiano dall’Istria e dalla Dalmazia, tra il 1943 sino a dopo la fine del Secondo Conflitto Mondiale. Una ferita profonda, portata compiutamente alla luce solo recentemente e rimasta nell’oblio per oltre 60 anni (sino al noto reportage del 1996 sul Corriere della Sera), ma mai dimenticata da coloro che la vissero in prima persona. La metafora della studiosa è duplice, riferendosi sia alle vittime che venivano legate l’una all’altra prima di essere gettate nei crepacci carsici detti appunto “foibe”, sia alla diaspora seguita all’inizio dell’eccidio, che vide disperdersi gli esuli giuliano-dalmati sull’intero territorio italiano.
In concomitanza con le celebrazioni della Giornata del Ricordo fissate in tutta Italia per il 10 febbraio in memoria della tragedia di quegli anni lontani (anche a Cremona, presso il monumento al Cimitero in presenza degli esuli, delle loro famiglie e massime cariche civili e militari), ascoltiamo il racconto di quel dramma da parte di un testimone oculare: Mario Ive (Presidente dell’Associazione Esuli Istriano-Dalmati di Cremona), maestro elementare, istriano, originario di Pola e costretto a fuggire dalla propria terra natale, approdando a Cremona. Un racconto e, contemporaneamente, un lucido resoconto, in cui le paure e le speranze degli italiani di quell’intricato crocevia etnico pulsano di vita propria, assieme al ricordo dell’anfiteatro e della cattedrale di Pola, affacciati sull’azzurro del mare lasciato per sempre alle spalle.

Come si arrivò al dramma delle foibe e, quindi, dell’esodo?

«Ci sarebbe molto da dire anche sui decenni e sui fatti precedenti la Seconda Guerra Mondiale, ma si può partire dall’armistizio dell’8 settembre del 1943 tra l’Italia e le forze Alleate Anglo-Americane, che segnò il tracollo del Regio Esercito. Da qui ebbe inizio tutta la tragedia. Allora mi trovavo ancora a Pola, la mia città natale: un importante base portuale e militare e per questo punto strategico ambito sia dalle potenze dell’Asse, che dagli Alleati e dai partigiani Jugoslavi. Dopo la firma dell’armistizio, la flotta militare di stanza a Pola e gli ufficiali superiori fuggirono verso Brindisi, per imbarcare il Re e Badoglio. Sul posto vennero lasciate le truppe, abbandonate a sé stesse, senza ordini, cibo o vestiario e, per di più, alla ricerca di un nascondiglio o di una via di fuga: anche qui, come in molte parti d’Europa, da combattenti a fianco della Germania i nostri si ritrovarono improvvisamente nemici dei Tedeschi. I quali dal 9 settembre assunsero subito il controllo di Trieste, poi di Fiume e Pola. Dalla parte slava intanto risalivano i partigiani che occuparono l’interno della regione proclamando poi l’annessione dell’Istria alla Croazia. Fu lì che iniziarono le prime eliminazioni, i cui destinatari non erano soltanto i rappresentanti del regime fascista ma “Italiani”, senza distinzioni politiche, di età o di sesso: pubblici amministratori, professionisti, carabinieri, finanzieri, militi della guardia civica, parroci, nonché numerosi uomini del Comitato di Liberazione Nazionale e di altre organizzazioni antifasciste. Ed ancora, cattolici ed ebrei, ricchi e poveri, padroni e semplici dipendenti, industriali, artigiani, agricoltori, pescatori, ecc. L’obiettivo degli uomini di Tito era quello di colpire lo Stato Italiano, rappresentato dalla classe dirigente e dalla comunità: entrambe individuate come potenziale nemico e potenziale “dissidente” del futuro stato comunista Jugoslavo. Vennero allestiti delle strutture che solo superficialmente potrebbero definirsi “tribunali”. Molti italiani vennero prelevati con la scusa dell’interrogatorio e non fecero più ritorno a casa».

Qual era la sua attività a Pola in quel periodo?

«Sino al ’42 lavoravo al Consorzio dei pescivendoli, occupandomi di contabilità. Poi nel 1942 ho conseguito il diploma magistrale ma non ho mai insegnato in Istria. Se lo avessi fatto, mi avrebbero spedito a insegnare italiano in qualche paese dell’interno (dove erano già attivi i partigiani slavi) aumentando notevolmente il rischio di essere infoibato o comunque ucciso. In quel periodo i Tedeschi avevano deciso di fortificare tutte le posizioni strategiche sulla costa, tra cui anche Pola. E, con la chiamata alle Armi del ’44, fui arruolato nella Todt, assieme a molti altri italiani, con l’incarico di realizzare bunker e altre opere di fortificazione. In questo periodo conobbi un tizio di cui non ricordo il nome purtroppo, con il quale entrai in amicizia: era un infiltrato dei partigiani di Tito con il compito di convincere gli italiani a passare dall’altra parte. Una persona che contribuì alla mia presenza qui oggi, per raccontare quel che vidi e che mi lasciai alle spalle».

Quando cominciaste ad accorgervi delle esecuzioni?

«Nel 1943, dopo l’armistizio, i contadini cominciarono a riferire di urla e grida che udivano nei pressi delle foibe in aperta campagna. A questo periodo risalgono le uccisioni di Norma Cossetto e delle sorelle Radecchi. In quel periodo le sofferenze si registrarono soprattutto nelle piccole comunità interne. In seguito poi, dal ’45, le stragi si estesero ulteriormente. Fu il Reggimento per la Difesa Territoriale (alle dirette dipendenze della Repubblica Sociale Italiana), di cui faceva parte anche Graziano Udovisi (uno dei pochi istriani che riuscì a risalire vivo da una foiba ed a mettersi in salvo, ndr), a ritrovare i primi corpi, riesumati dalla Foiba di Vines. Ma altri, molti altri vennero rinvenuti in seguito in altre grotte. Incaricato delle ricerche era il maresciallo Arnaldo Harzarich, nostro comandante dei Vigili del Fuoco a Pola (sulla cui testa i partigiani comunisti jugoslavi avevano messo addirittura una taglia), che da ottobre a dicembre riesumò con altri centinaia di salme dalle foibe dell’entroterra istriano. Come ho detto, non erano solo militari del Regio Esercito, fascisti o arruolati nell’Rtd, erano anche e soprattutto la spina dorsale della classe dirigente italiana. La maggior parte di loro venne scaraventata nei crepacci e nelle miniere. Altri eccidi proseguirono sulla costa, nel corso dell’occupazione di città dalmate come Zara, ridotta in rovine da ben 54 bombardamenti con conseguente morte o fuga della maggior parte degli abitanti: è il caso dei fratelli Nicolò e Pietro Luxardo, imprenditori del liquore maraschino. Sino al quando nel 1945, con l’occupazione slava della Venezia Giulia (l’obiettivo era impossessarsene prima degli Alleati) e la calata della Cortina di Ferro, le esecuzioni sommarie ripresero a Trieste, in Istria a Gorizia e a Fiume in modo ancor più violento, con altre migliaia di infoibamenti e annegamenti. In tutto le vittime potrebbero arrivare a 20mila, tra infoibati, fucilati, annegati, deportati e morti di stenti. Ma credo che purtroppo non sapremo mai il numero esatto».

Lei per fortuna è riuscito a salvarsi. Com’è successo?

«Quell’infiltrato nella Todt che conobbi (che in seguito divenne il capo della polizia di Pola) una sera mi mandò via, a prendere del pane. In seguito capii che era stata una scusa per allontanarmi. La mattina dopo infatti, quando tornai, non trovai più nessuno: i partigiani slavi li avevano presi tutti: la compagnia di lavoratori italiani e i militari tedeschi. Quando poco dopo incontrai di nuovo quella persona le chiesi come mai non mi avesse fatto andare con gli altri, nei boschi. Mi rispose: “quando sarà finita la guerra ti dirò in che stato torneranno indietro. Se mai torneranno”. Uno di loro lo rividi tempo dopo. Era stato spedito a lavorare sul confine ungherese. Tornò in condizioni disumane, malato, pesava meno di 40 chili».

Poi iniziò l’esodo della popolazione, tra cui il Suo…

«Sono arrivato a Cremona nel ’46, dopo essere fuggito da Pola, e fortunatamente non fu un salto nel buio. Ho avuto la fortuna di trovare un posto di lavoro prima di partire alla scuola elementare di Crotta d’Adda, dove ho preso servizio il 20 ottobre dello stesso anno (e uno dei miei alunni nella III classe era il figlio dell’allora sindaco). Altra fortuna è stata quella di poter trasportare qui tutto il mio mobilio. A chi sceglieva di lasciare il paese, infatti, Tito aveva concesso di portare via una sola valigia a testa. Ma a Pola eravamo esenti da questa regola. C’era stato l’accordo con Tito per tenere una striscia di terra con una ferrovia che, traversando il centro dell’Istria, arrivava sino in Austria, con convogli di treni disposti dagli Alleati per trasportare le nostre merci».

Altri invece fecero l’esperienza dei campi profughi, che erano anche a Cremona…

«Non tutti purtroppo ebbero la fortuna di trovare un impiego già prima di partire e molti si dispersero in tutta Italia, in Puglia e in Sicilia, dove furono ospitati negli ex campi di prigionia degli Alleati. C’erano anche coloro che cercavano di fuggire in Italia senza documenti e senza permesso: costoro, se riuscivano a passare vivi il confine slavo, venivano rispediti indietro quando erano individuati dalla polizia italiana, andando incontro quasi sempre a morte certa. A Cremona il primo campo fu allestito all’asilo Martini, in via Vecchio Passeggio (ora sede dell’Assessorato alle Politiche Educative). Qui, sulla scalinata che porta al secondo piano, si può vedere la lapide commemorativa che ponemmo il primo anno in cui venne celebrata la Giornata del Ricordo (nel 2005, con la presenza di Giancarlo Corada). In seguito, la struttura per l’accoglimento dei profughi venne trasferita nell’ex Caserma Lamarmora, vicino alla chiesa di S. Agata. Infine, con la legge del ’52, per liberare il campo in centro città venne costruito il quartiere di Borgo Loreto, dove vennero sistemati i profughi giuliano-dalmati. Dobbiamo molto alla città di Cremona per averci dato la possibilità di sistemarci e di ricominciare una nuova vita».

Michele Scolari su www.e-cremonaweb.it

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