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Intervista a L. Toth sul suo secondo romanzo, Spiridione Lascarich (Voce del Popolo 06 lug)

Una ricca carriera da magistrato della Corte di Cassazione e senatore della Repubblica Italiana, e adesso anche da scrittore. È la “nuova” vita dell’esule zaratino Lucio Toth, classe 1934, che nell’arte letteraria ha trovato il meccanismo più adatto per trasmettere tanto la sua ricchezza interiore quanto la ricchezza delle terre di provenienza. In verità, Toth – punto di riferimento dell’associazionismo dell’esodo – per anni è stato alla guida dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, di cui è oggi presidente onorario – non è nuovo a questo tipo di percorso, che lo ha portato già nel 2008 alla pubblicazione del suo primo romanzo, “La casa di calle San Zorzi” (Sovera Editore), che narra l’odissea delle genti dalmate attraverso le tempeste del ’900. “Spiridione Lascarich – Alfiere della Serenissima”, edito nella collana Parole d’Acqua da “La Musa Talìa” di Venezia, è il suo secondo lavoro. Nel libro l’autore ha ripercorso le avventure di un dalmata di Curzola, ufficiale di Venezia che combatté in Dalmazia e in Grecia. Siamo sul finire del XVII secolo, mentre l’Europa si trova a fronteggiare l’avanzata dell’Impero ottomano nella penisola balcanica, che minaccia il cuore del Continente…

 

“La Dalmazia è stata teatro per secoli delle guerre che la Repubblica di Venezia e gli altri stati europei hanno condotto contro l’invasione ottomana dei Balcani e per il dominio del Mediterraneo – esordisce Lucio Toth alla domanda di com’è scaturita l’idea per il romanzo –. Nessuno ne ha mai tratto un racconto. Così ho voluto ricostruire le vicende di un nobile dalmata di Curzola, ufficiale dei reggimenti Oltremarini della Serenissima. Una specie di D’Artagnan adriatico, coinvolto in amori, intrighi e battaglie tra la frontiera dalmata, i palazzi di Venezia e la conquista veneziana del Peloponneso agli ordini di Francesco Morosini. Lascarich è un giovane avventuroso che diventa un comandante avveduto e prudente. Ma incorre in un incerto del mestiere. Ne viene fuori grazie alla sua rettitudine e a un po’ di fortuna. Però il suo carattere ne resta segnato. Il finale sorprende il lettore per l’esito inatteso di tante peripezie, attraverso le quali ho voluto restituire al presente la memoria di un mondo affascinante e multietnico, quali erano i Domini da Mar della Repubblica di San Marco”.

 

La stesura del romanzo ha richiesto particolari ricerche?

 

“Ho letto epistolari privati, relazioni militari dell’epoca, epigrafi rinvenute qua e là in chiese e monasteri della Dalmazia, di Venezia, delle Marche, della Grecia. Poi ho consultato trattati di storia e ordinamenti militari del tempo (fine del ’700), insieme alle cartografie che danno notizia degli eventi bellici che si sono svolti nei vari luoghi tra le Dinariche e le contrade della Morea e dell’Attica”.

 

Il personaggio di Spiridione Lascarich è un mito oppure una realtà storica?

 

“Spiro è un personaggio di fantasia, che si muove tra mito e realtà. Lo lascio in quest’atmosfera sfumata di sogno. Ma sono esistite in Dalmazia personalità del tutto simili alla sua: uomini audaci e irruenti, ma anche militari e governatori di grande valore, leali verso gli ideali in cui credevano. L’Ordine di San Marco era la massima onorificenza della Repubblica Veneta. Tra gli insigniti i dalmati sono più di tutti, prima dei bresciani, dei veronesi, dei friulani”.

 

Che difficoltà ha incontrato nello scrivere il libro. Quanto tempo ci ha messo per ultimarlo?

 

“Un paio d’anni, lavorando specie durante le vacanze estive o natalizie, in una mia casetta in riva all’Adriatico, sulla costa abruzzese di fronte alla Dalmazia, che immaginavo di vedere oltre la veranda nelle notti di luna o nei giorni di burrasca. La scrittura comincia sempre in maniera un po’ tormentosa, poi si risolve in un piacere e scorre via da sola, creando fatti e personaggi quasi senza volerlo”.

 

Ha intenzione di presentare il libro anche in Croazia, magari a Zara, sua città natia?

 

“Mi piacerebbe presentare il nuovo libro a Spalato o a Zara, com’è avvenuto nel novembre scorso all’Università zaratina per il primo romanzo ‘La casa di Calle San Zorzi’, con gli amici i professori Živko Nišić e Tonko Maroević”.

 

Torna spesso a Zara?

 

“Non ci torno molto spesso, ogni qualche anno. È sempre un po’ traumatico, nel senso più proprio della parola ‘nostalgia’, che in greco non vuol dire dolore della lontananza o del ricordo, ma ‘dolore del ritorno’. Zara di oggi, Zadar, è molto più diversa dalla città di sessant’anni fa di quanto non lo siano Rovigno o la stessa Pola. Devo però confessare che ogni volta che vi torno l’attrito con la realtà è meno duro. Sento la città più mia, al di là delle differenze. È come se la sua essenza più intima e antica riemergesse da una profondità di prospettiva più autentica. C’è un Genius Loci che aleggia nell’aria, tra le pietre delle case e delle chiese, le colonne e i selciati romani, che fa sì che il mio amore per la città si estenda alla gente che oggi vi abita, anche se non parla più la mia lingua”.

 

Ha alle spalle una carriera da magistrato di Cassazione e parlamentare. Com’è arrivato alla scrittura?

 

“Non saprei dirlo. Certo, l’esperienza di magistrato e poi di parlamentare, a contatto con i problemi concreti delle persone, dà un’ampia messe di materiale mnemonico, d’impressioni, di emozioni, dal quale si attinge a piene mani. E poi il trauma dell’esodo, della perdita della terra natale si trasforma in ricchezza interiore. Si ha bisogno di ritornare indietro nello spazio e nel tempo. Un dono che solo la scrittura può dare”.

 

La sua prossima fatica letteraria?

 

“Sto lavorando a un racconto lungo che si rifà a un personaggio reale, uno dei numerosi dalmati che parteciparono volontari al Risorgimento italiano. Ci sono dentro i suoi contrasti con il padre legittimista, le sue illusioni rivoluzionarie al seguito di Garibaldi, le delusioni di fronte alla realtà del nuovo Regno d’Italia, i rapporti con gli Autonomisti rimasti in patria, visti dalla sua prospettiva d’italiano pienamente integrato nella vita politica e amministrativa della Penisola. Ma sono ancora indietro. Non trovo il tempo”.

 

Leggiamo spesso di suoi interventi contro l’appropriazione “indebita”, da parte della storiografia croata, di illustri personaggi e città che appartengono alla storia italiana dell’Adriatico Orientale, ma anche di polemiche con la stampa italiana sulla forzatura della dicitura croata dei nomi delle città dalmate e dell’Istria. Ricordo poi la sua reazione alle affermazioni, sul “Corriere della Sera”, di uno scrittore del calibro di Sergio Romano, che si è lasciato andare a giudizi particolarmente duri sull’italianità della Dalmazia.

 

“I nomi dei luoghi variano nel tempo, a volte spontaneamente, per l’uso che ne fa chi ci vive (ad esempio Jadera – Jadra – Giadra – Zadra – Zara – Zadar), a volte per imposizioni politiche, come avvenne nel Novecento per motivi nazionalistici (e citerò il caso di Illyrisch Feistritz – Ilirska Bistrica – Bisterza – Villa del Nevoso). Tutte le località della Dalmazia, dell’Istria e del Quarnaro avevano però nella cartografia, nei carteggi privati e negli atti pubblici dei secoli passati, fino all’epoca austro-ungarica, nomi italiani, derivati dagli antichi idiomi romanzi della regione o adattati dal croato, come Meleda da Melita, Ragusa dal greco-bizantino Ragusi, Sebenico da Šibenik. Ma nell’uso corrente è ovvio che avessero anche nomi croati, o comunque slavi, dato che la gente che li abitava era anche o prevalentemente croata o serba o slovena. Negli ultimi decenni dell’amministrazione austriaca, come già in epoca veneta e napoleonica, esistevano anche atti e carte geografiche redatti in lingua croata, serba o slovena, e ovviamente in francese o in tedesco. Ma nei comuni costieri erano piuttosto rari. Tutto il catasto della Repubblica di Ragusa, ad esempio, era redatto in italiano, come in italiano erano redatte fin dal Quattrocento le delibere del Senato raguseo.

 

Niente di scandaloso quindi che i croati chiamassero Arbe Rab, come viceversa gli italiani la chiamassero Arbe da tempi immemorabili, dato che gli uni e gli altri ci vivevano. Era un loro diritto chiamare come volevano la propria città e la propria isola. Quello che è scandaloso è la cancellazione dalla memoria del nome italiano. Ma nessun croato o serbo o tedesco di qualche cultura lo fa. Lo fanno giornalisti italiani pigri e ignoranti, o semplicemente servili, per ingraziarsi goffamente non si sa chi. Quanto alle persone, il discorso è più delicato, dato che queste persone si facevano chiamare con nomi italiani, vivendo in ambienti culturali, artistici o scientifici italiani o comunque dell’Europa occidentale, come avveniva ad altri umanisti o artisti che italiani non erano. Ruggero Boscovich ci teneva a questa grafia del suo cognome e, da vero dalmata, si infuriava se gli veniva cambiata.

 

Questo non vuol dire che non parlasse anche in croato o che in questa lingua non scrivesse a parenti o ad amici. Trecento anni prima Luciano e Francesco Laurana si facevano chiamare così. Non so che dialetto parlassero da bambini nella natia Vrana. Sta di fatto che appartengono alla storia dell’arte italiana, anzi ne sono protagonisti, ai vertici dell’architettura e della scultura del Rinascimento. A Luciano viene attribuita ‘La Città Ideale’ del Museo regionale delle Marche, simbolo della perfezione rinascimentale. Disputare sulla loro etnicità mi sembra una tentazione vagamente razzista e affibbiare loro nomi e cognomi che non si trovano da nessuna parte è un’operazione grottesca che non fa onore a nessuno. I dalmati, a qualsiasi nazionalità ritengano di appartenere, hanno motivo di esserne orgogliosi, perché i due artisti esprimono una particolare sensibilità estetica, comune ad altri conterranei, come Giovanni Dalmata o Giorgio Orsini”.

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