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Inizia in un bosco la saga degli Irneri (Il Piccolo 14 nov)

di PIETRO SPIRITO

TRIESTE Oggi il gruppo assicurativo Allianz conta 70 milioni di clienti, 2476 promotori finanziari, 2637 agenti, 6575 dipendenti e 13,5 miliardi di premi raccolti. Il Lloyd Adriatico è uno dei marchi del gruppo, e dietro la sua vasta rete commerciale che ha sede a Trieste c’è una storia che inizia con l’uccisione di un orso nei boschi del Tirolo.

Siamo nel sedicesimo secolo, nella contea di Petersberg, nell’alta valle dell’Inn. Uno staffiere di nome Neunfinger – che significa ”nove dita”- sta accompagnando il suo signorotto in una battuta di caccia. Ad un tratto dalla boscaglia esce un orso inferocito – fatto tutt’altro che raro allora in quei boschi – che attacca i due uomini. Neunfinger non ci pensa due volte, afferra un’ascia, affronta l’orso e gli spacca la testa. L’animale cade a terra con le cervella da fuori, il signorotto (la storia non ha tramandato il suo nome) decisamente sollevato e stupito da tanta audacia chiede al suo servo come si può sdebitare. Neunfinger ci pensa un po’ su, poi esprime il desiderio di cambiare nome. ”Nove dita” è un appellativo scomodo, perché rimanda alla pratica di tagliare le dita ai ladri, e uno che si porta dietro questa nomea incontra spesso diffidenza e porte chiuse. Non sappiamo – la storia non l’ha tramandato – se qualche avo dello staffiere fosse veramente un ladro, il punto è che a Neunfinger chiamarsi così non piace, provoca un mucchio di seccature. Perciò il suo desiderio più grande è cambiare nome. Il signorotto accetta subito, e chiede allo staffiere come dunque vorrebbe chiamarsi. Neunfinger ci pensa su, poi guarda l’orso ucciso e dice ”Hirn”, cioè cervello.

Inizia così la stirpe degli Hirn, che si fa subito onore. Tanto che il 17 settembre 1736 l’imperatore Carlo VI d’Asburgo conferisce il diritto al blasone ai discendenti del coraggioso staffiere, i fratelli Tommaso, Giacomo e Giuseppe Hirn. Il blasone raffigura Neunfinger all’interno di uno scudo, con barba e baffi grigi, in mezzo a due alberi verdi, un piede sopra l’orso ucciso, le mani che indicano una l’animale steso, l’altra un cielo stellato. Sopra lo scudo c’è un elmo da torneo e intorno al tutto un cartiglio con il motto ”Soli Deo Gloria”, solo Dio dà la gloria. Frase che porterà fortuna alla stipre degli Hirn, un discendente dei quali, Francesco, nella seconda metà del Settecento lascia il Tirolo e si trasferisce a Trieste. È a questo punto che troviamo tracce più certe di quella pista che due secoli dopo avrebbe portato alla nascita di una delle più grandi compagnie assicurative del mondo, uno dei simboli della Trieste economica e imprenditoriale.

Nel 1769 Francesco Hirn sposa Gertrude Lenardich, e da uno dei suoi figli, Giovanni Giuseppe, sposato con Anna Chersich, nasce – assieme ad altri sette tra fratelli e sorelle – Guido Giuseppe. L’albero genealogico cresce in fretta: Guido Giuseppe sposa Maria Vogel, che il 29 dicembre 1865 alla luce Giuseppe Servolo Hirn, che a sua volta il 17 settembre 1892 si unisce in matrimonio con Amalia Matilde Jess. Dalla loro unione nascono Emma, Ugo, Giusto(che però muore in tenera età), Jolanda e Ada.

«Ma a questo punto bisogna fare un passo indietro», dice Giorgio Irneri, classe 1922, figlio di Ugo, ultimo patriarca della progenie di ”Cervello”. Il passo riporta alla famiglia di Giuseppe Servolo, una classica famiglia piccolo borghese della Trieste piccolo borghese di fine Ottocento. Tanto lavoro (Giuseppe e i suoi fratelli amministrano stabili), scampagnate domenicali, modeste villeggiature in località facili da raggiungere e soprattutto economiche. E poi i fermenti politici, gli afflati irredentisti, che papà Giuseppe non nasconde e il giovane Ugo assorbe fino a frequentare ambienti iperpatriottici e massonici come la Ginnastica Triestina e l’Alpina delle Giulie, fino alla decisione di lasciare Trieste. Alla fine del gennaio 1915 Ugo Hirn riesce a imbarcarsi di straforo sul piroscafo ”Adriatico” del compartimento di Bari assieme a un gruppo di fuggiaschi. Fa tappa in Svizzera, ma quando l’Italia entra in guerra si arruola e parte per il fronte, prima con il grado di sottotenente, poi di tenente di artiglieira. Combatte a Quisca, Podsabotino, Monte Sabotino, Santa Caterina, Gorizia, Capriva. Bevendo l’acqua infetta dell’Isonzo si ammala di epatite virale, finisce in ospedale ma evita la disfatta di Caporetto, e soprattutto evita di finire nelle mani degli ex connazionali, che intanto l’hanno condannato a morte. Dopo un periodo di convalescenza Ugo viene spedito a Sirolo, sulle pendici del Monte Conero, dove ha l’incarico di predisporre una batteria di artiglieria da costa. Qui conosce la sedicenne Anna Maria Faggioli, una delle tre figlie del dentista del luogo, una bella ragazza dai capelli lunghi e neri che diventerà sua moglie. Finita la guerra, il 7 novembre 1918 il tenente Hirn torna a Trieste da vincitore. Da allora, ogni anno in quella data metterà sulla sua tavola un mazzo di fiori legati da un nastro tricolore.

Ugo Hirn, finalmente italiano, viene assegnato al Regio Governatorato della Venezia Giulia, poi al Commissariato Civile. Congedato nel novembre del 1919, un anno dopo si laurea in Scienze economiche e commerciali, e va a lavorare nella sede triestina della ”Fenice”, primaria compagnia d’assicurazioni austriaca. Si sposa a Sirolo il 16 luglio 1921 e, racconta oggi Giorgio Irneri, «con quasi cronometrica puntualità dieci mesi dopo nacqui io». Nel 1924 Ugo trova impiego alla Cassa Distrettuale di Malattia, dove guadagna la bella cirfa di 900 lire al mese. A trent’anni il giovane Hirn diventa direttore della filiale triestina della Cassa. Sulla scia del suo antenanto ha cambiato i cognome, trasformato nel più italiano Irneri. Adesso Ugo Irneri guadagna 3mila lire al mese, compra la prima auto, una Peugeot Torpedo, e si avvia verso un periodo di serenità e prosperità. Che però dura solo qualche anno. Le cose sul lavoro cominciano a mettersi male, Ugo Irneri non approva certe scelte, non approva il comportamento di certe persone, non approva le gerarchie del regime fascista. Diventa vittima di quello che oggi chiameremmo ”mobbing”, ma siccome non gli piacciono i compromessi preferisce andarsene. «Si licenziò il 31 dicembre del 1931 – racconta Giorgio Irneri – ricordo ancora quel giorno: era disperato, ma non voleva farlo vedere in famiglia, così quando entrò in casa fingendo allegria perché aveva avuto un mucchio di soldi dalla liquidazione lanciò in aria le banconote da 100, 500 e mille lire, facendo il gesto del riccone».

Negli anni Trenta Ugo viene più volte richiamato nell’esercito, e tra un richiamo e l’altro lavora come agente assicurativo al «Lloyd Italico & l’Ancora» e alla «Compagnia Anonima di Torino». Nel 1936 decide di fare il salto: con un capitale minimo di 5mila lire fonda la «Società Anonima Cooperativa Sabauda di Assicurazioni», sono lui e due impiegati, Romeo Princivalli e Francesco Brovedani. La partenza è in salita, Ugo Irneri viene richiamato a spedito in Africa, torna a Trieste sempre sotto le armi ma dopo l’8 settembre ’43 fugge con la famiglia in Toscana. «Allora – ricorda Giorgio – ero ufficiale alla Capitaneria di Porto di Venezia: andammo nelle Marche, poi in Umbria, in Toscana prima a Prato e poi a Firenze, dove c’era la famiglia della mia fidanzata, Lina Magni, che oggi è mia moglie; l’avevo incontrata in vacanza a Cortina, un vero colpo di fulmine».

Gli Irneri sono sfollati, hanno perso tutto, non hanno un soldo. Ma Ugo non si perde d’animo e partendo da due sole pezze si dà al commercio di stoffe. Gira l’Italia sotto le bombe, vende la stoffa, la paga al fornitore, riprende altre due pezze e così avanti. Finita la guerra, la famiglia Irneri aspetta che passi anche la tempesta titina, e nel luglio del 1945 torna a Trieste. Le pezze di stoffa pratese con molta fantasia e poca ortodossia rappresentano la trasformazione dei fondi sociali della ”Sabaudia”, che nell’Italia repubblicana si affretta a cambiare nome in un più moderno e rassicurante ”Lloyd Adriatico”. Il resto è storia nota, quella di un’ascesa economica e commerciale senza freni nel campo delle assicurazioni. Ugo Irneri morirà nel gennaio del 1979, il figlio Giorgio calcherà (già dal 1947) le orme paterne mentre i suoi figli, Donata e Piero, seguiranno altre strade. Oggi la stirpe degli Irneri, con i nipoti Fiammetta e Michelangelo Hauser e Giulia e Carola Irneri, continua senza aver mai dimenticato il motto coniato dagli antenati: solo Dio dà la gloria.

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