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Il Piccolo – 071007 – Quando la Barcolana sconfinò in acque slovene

di Fulvio Molinari

Alla Barcolana 1996 – ricordo perfettamente – il numero degli
equipaggi cresceva in modo esponenziale, e si ponevano problemi di
sicurezza. A febbraio ci fu un consulto, attorno ad una tavola
bianca, con i grandi nomi della vela locale: Pellaschier, Sponza,
Demartis, Benussi, Paoletti, Parladori, Vencato, Chersi, De Grassi,
Battiston e qualche altro. Dopo il secondo piatto tutti furono
concordi nel dire che i rischi maggiori si correvano alla prima boa,
quando le barche più veloci viravano per puntare verso Miramare e si
infilavano tra le centinaia di scafi sopraggiungenti da Barcola. Uno
slalom da brividi. Si pose un problema: come sgranare il gruppo di
imbarcazioni che partivano da Barcola tutte assieme, e a Punta Grossa
si incrociavano chi di prua, chi di poppa. La risposta, dopo la
seconda bottiglia di tocai friulano, fu quasi unanime: era necessario
allungare il primo lato del percorso, in modo da distanziare di più
le barche più veloci da quelle da crociera, e collocare una seconda
boa a qualche centinaio di metri ad ovest, in modo da evitare
il "barcascontro".

Sul piano tecnico, tutto bene, ma sorgeva un secondo problema: come
navigare oltre Punta Grossa, in acque territoriali slovene. C'erano
da fare documenti di ingresso, presentare carte di identificazione,
tutte le cose, insomma, necessarie quando si oltrepassa un confine,
anche se marittimo. A questo punto il capitano Sandro Chersi
pronunciò una storica frase: «A sentirlo sulle labbra il mare di
Trieste e quello di Capodistria hanno lo stesso sapore di sale,
perché fra le onde non ci sono confini».

Fu questa antica saggezza marinara ad ispirare i dirigenti della
Società velica di Barcola e Grignano, che presero carta e penna e
scrissero all'allora sottosegretario agli esteri, Piero Fassino,
chiedendogli di adoperarsi affinchè la Barcolana potesse transitare
per qualche centinaio di metri in acque slovene senza dover
sottostare a leggi e regolamenti imposti dalla burocrazia
internazionale. Ma non fecero solo questo. Contattarono Janko
Kosmina, ex sindaco di Capodistria e personaggio influente nella
politica slovena, chiedendogli di aiutarli a risolvere il problema.
Janko Kosmina è uomo di larghe vedute, e disse subito di sì. Anzi,
fece di più: imbarcò sul Gaja Legend il suo amico Milan Kucan, allora
presidente della repubblica di Slovenia, e lo portò a fare un giro in
golfo. «Vedi – gli disse – basta tirare un bordo più lungo e sei in
acque italiane, e così accade ai triestini: con bora o maestrale
mettono a riva un gennaker, e sono già nelle nostre acque. Il mare,
in un golfo così ristretto, non può avere rigidi confini».

Nel giro di due giorni la diplomazia slovena si mise in contatto con
quella italiana, e alla Farnesina trovò ampio riscontro e
collaborazione. E accadde quasi un miracolo istituzionale: le
motovedette della polizia italiana furono autorizzate ad entrare, con
le armi di dotazione ma senza colpo in canna, in acque slovene, e la
polizia e la capitaneria di porto di Capodistria si assunsero il
compito di controllare la regata, sotto il profilo della sicurezza e
del soccorso, nel loro territorio marittimo. Alle riunioni di
coordinamento dell'assistenza alla regata, presso la capitaneria di
porto di Trieste, parteciparono per la prima volta ufficiali della
polizia marittima e della capitaneria slovene. I regatanti non
dovevano esibire nessun documento, fare nessuna pratica, perché il
mare è ugualmente salato a Trieste come a Capodistria.
Quell'edizione, per la seconda volta, la vinse l'equipaggio sloveno
di Gaja Legend.

 

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