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Il coraggio di guardare in quell’orrido buco nero (L’Arena di Pola 28 ago)

Per anni nella sede dell’Unione degli Istriani, nella bacheca posta sulla sinistra dell’entrata, ha fatto bella mostra di sé un comunicato, un appello, l’enunciazione di un progetto che recitava: «Mettiamo una croce sulla foiba di Vines». Sono passati gli anni e motivi politici e burocratici hanno sin qui impedito che se ne facesse qualcosa.

Eppure lì una croce c’è!

Qualche anno fa ce l’abbiamo messa noi o, meglio, ce l’ha messa per tutti noi un uomo semplice, schivo e determinato, Francesco Tromba, esule da Rovigno. Lo ha fatto, assieme ai suoi tre amici dell’infanzia di ieri e della maturità di oggi Bruno, Ruggero e Veniero, nella convinzione – non certezza perché, tra le 84 vittime che vi furono recuperate dall’eroico maresciallo dei vigili del fuoco di Pola Harzarich, la sua salma non figurò tra le 43 identificate – che in quell’abisso sia stato gettato anche suo padre.

È una piccola croce di legno, guarnita con un’immagine sacra, ma immensa per il suo enorme significato morale.

Tuttavia, quando si giunge sul posto, a riempire la scena non è la croce ma quell’orrido buco nero che i radi raggi di sole che filtrano tra i rami degli alberi che lo circondano e le fronde di diverse tonalità di verde che gli fanno corona non riescono a rendere meno tetro. Con non poca apprensione ti affacci sull’orlo dell’abisso, vorresti gettarvi un sasso per percepirne la profondità che sai prossima ai 140 metri. Invece rimani lì, attonito, a guardarlo ma, in effetti, è lui a guardare te, a scrutare il tuo animo quasi a voler scoprire quali sentimenti ti hanno spinto sino lì. Non è un occhio benevolo; nello stesso tempo ti attira e, fortunatamente, ti respinge. Ci vuole forza d’animo ed equilibrio psichico per reggerne lo sguardo.

Ci vuole soprattutto coraggio. Fissandolo ti scorrono davanti, come in un film dell’orrore, le immagini di quei giorni lontani del ’43 o del ’45 evocate in tantissimi scritti, letti e riletti nel corso degli anni; non puoi non vedere le espressioni di terrore dipinte sui volti dei disgraziati che vi venivano spinti dentro ed il ghigno feroce dei loro carnefici; non puoi non risentire anche tuo il dolore e lo strazio di madri, padri, figli, parenti ed amici lì convocati per procedere al riconoscimento delle salme e di quanti altri per mesi ed anni, sino ai nostri giorni, hanno cercato e cercano invano di sapere dove giacciono i loro cari; non puoi non provare sdegno per quanti sapendo hanno taciuto, per quanti ancora negano, giustificano, sminuiscono; per quanti ancora si oppongono a che in questo ed in altri luoghi si possa compiere anche un semplice gesto di omaggio in memoria di tante vittime innocenti.

Nel turbinio di sentimenti che ti assalgono non è però l’odio e la volontà di rivalsa a prendere il sopravvento. Ti rendi perfettamente conto che ciò che è stato non lo puoi cambiare; che la sola cosa che puoi fare è pregare per quelle povere anime, perché simili orrori non abbiano più a ripetersi, perché l’animo umano si apra sempre più alla pietà, perché un giorno possa finalmente emergere tutta la verità e che alla giustizia divina si accompagni anche quella terrena. Insomma, sorprendentemente, non è una maledizione quella che ti sale dall’intimo; ti segni con la croce, vi getti il fiore che ti sei portato appresso o che hai appena colto poco più in là nel prato, fai un passo indietro per lasciare posto ad altri perché possano vivere le tue stesse emozioni e ripetere il tuo stesso rito e ti appresti, in raccoglimento, ad ascoltare la preghiera che Francesco reciterà per tutti noi e che pubblichiamo qui sotto.

Siamo stati anche su altre foibe, ma qui è diverso. Siamo davanti ad una foiba che ci è tragicamente familiare.

Qui sono finite persone che abbiamo conosciuto; ci sembra di rivedere volti che ci sono stati cari. Qui siamo su una stazione, tutt’altro che immaginaria o simbolica, di una Via crucis lungo i luoghi del Calvario della nostra gente. Qui senti il bisogno di metterti in ginocchio. Non c’è spazio per parole roboanti e piene di retorica che, spesso con fastidio, ci tocca ascoltare in altre circostanze; qui proprio non le vogliamo sentire. Altri sono i sentimenti e le emozioni che ci scuotono e pazienza se non tutti, specie chi non è figlio di queste terre e non ha vissuto le nostre stesse tragedie, possono capire. Celebrare qui le nostre memorie ha un significato enormemente maggiore che non farlo entro i confini nazionali e poco importa se siamo ancora soli a confrontarci con tanto dolore, se le istituzioni sono pressoché assenti (è però con noi l’On. Furio Radin, presidente dell’Unione degli Italiani e rappresentante della nostra minoranza al Sabor di Zagabria), se non ci sono state scuse ufficiali, se il nostro gesto non ha avuto l’ufficialità e visibilità che tutti noi vorremmo. Chissà… forse un giorno. L’importante è crederci, volerlo, lavorare, senza sgomitare, perché le cose possano cambiare.

Noi esuli da Pola e da altre contrade siamo andati lì, dopo aver celebrato i martiri di Vergarolla, in riservato pellegrinaggio al solo fine, come tante volte abbiamo dichiarato di voler fare, di rendere omaggio ai nostri morti e pregare davanti ad una croce.

La croce, appunto. Oggi l’abbiamo ritrovata e speriamo di ritrovarla ancora ogniqualvolta verremo in questo posto. Se così non sarà, vorrà dire che la stupidità umana, figlia di troppe madri, non è ancora stata sconfitta; che la barbarie ha ancora una volta vinto sulla civiltà, sul buon senso e sulla pietà umana. Ma sarà una vittoria transitoria ed effimera, perché ci sarà sempre qualcuno che quella croce verrà a riposizionarla.

Grazie, Francesco, per averci aperto uno strada e portati, quasi per mano, in questo luogo che un giorno altri uomini hanno profanato e che lo scorso 18 agosto con il nostro raccoglimento abbiamo consacrato. L’averlo fatto ci appaga, ci rende più sereni ed, in qualche misura, migliori.

Silvio Mazzaroli

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