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I Rossetti e l’antenato ritrovato (Il Piccolo 24 gen)

di PIETRO SPIRITO

TRIESTE
«L’iconografia ufficiale ha ridotto la figura di Domenico Rossetti a quella di umanista e patriota, trascurando la sua attività di giurista, che fu senza dubbio predominante, la più importante». Nel piccolo ufficio del Museo della Fondazione Giovanni Scaramangà di Altomonte in via Filzi 1, Antonio Rossetti de Scander, 73 anni, commercialista in pensione, svolge il cartiglio con l’albero genealogico della sua famiglia. Accanto alla vecchia scrivania di legno un telefono in bachelite nera, con i numeri a disco, se ne sta silenzioso in disparte, con l’aria di non aver alcuna intenzione di squillare. Antonio Rossetti guida la Fondazione Scaramangà e il museo con la stessa cura con cui coltiva le memorie familiari. Il suo quadrisavolo è Giovanni, fratello di Domenico Rossetti – quest’ultimo oggi immortalato nel monumento davanti ai Giardini Pubblici – dodicesimo figlio di Antonio Rossetti e Orsola Perinello, il primo ricco commerciante, armatore e proprietario di una fabbrica di rosolio, la seconda figlia di un altro ricco commerciante, veneziano. «Ma il primo Rossetti di cui si ha notizia certa è Tommaso, vissuto fra il 1646 e il 1686», spiega Antonio.

Figlio di Urbano Rossetti, di cui si sa poco o niente, se non che è vissuto nella prima metà del XVII secolo, Tommaso fa il bombardiere – l’artigliere – nell’antico forte di Peschiera, allora parte della Serenissima. E questa dell’artiglieria sarà una specie di tradizione di famiglia riemersa dopo secoli: sarà artigliere anche il padre dell’attuale Antonio Rossetti, Domenico, lo stesso Antonio e pure il figlio Domenico, che oggi esercita la professione di amministratore stabili. In epoca più remota, invece, il figlio di Tommaso, Giovanni Battista, lo troviamo alla fine del Seicento al comando di una nave della Repubblica di Venezia durante la guerra di Morea, la campagna militare che impegnò a lungo la Serenissima contro l'Impero Ottomano per il controllo di parte del Peloponneso e del Mar Egeo.

Dopo il 1718 Giovanni Battista Rossetti, lasciate le navi da guerra, si trasferisce a Fiume, dove gli viene affidato il comando di un bastimento mercantile della Compagnia Orientale Austriaca, primo esperimento voluto da Carlo VI per mettere a frutto i porti-franchi di Fiume e Trieste. Ma la Compagnia non funziona, viene messa in liquidazione, e Giovanni Battista si trasferisce a Trieste. Adesso è sposato con Daniela Gini, discendente, si dice, da Giorgio Castriota Scanderberg, il guerriero che seppe resistere per 25 anni ai tentativi di conquista dell’Albania da parte dell'Impero Ottomano, nonché attuale eroe nazionale del Paese delle aquile.

Dal matrimonio tra Giovanni Battista e Daniela nel 1772 nasce Antonio. La famiglia sta allargando le sue radici a Trieste, i Rossetti possiedono diversi immobili e molti terreni, hanno una grande casa in città e una villa in campagna. Commerciante, imprenditore e armatore, Antonio istituisce una linea di navigazione fra Trieste e i porti dell’Europa settentrionale. È la prima del genere. Questa volta funziona e nel 1775 Maria Teresa gli conferisce il titolo di nobile del Sacro romano impero de Scander. È l’inizio della scalata nobiliare dei Rossetti: nel 1776 Antonio viene ammesso nel patriziato triestino, nel 1779 il Duca di Modena gli conferisce il titolo di conte. In quegli anni il dodicesimo figlio di Antonio e Orsola Perinello, Domenico, è già nato, e perché anche lui e i suoi discendenti possano fregiarsi del titolo viene emesso un apposito editto.

Le cose vanno a gonfie vele per la famiglia Rossetti finché con lo scoppio della rivoluzione francese gli assetti europei vacillano e alla ribalta si affaccia un piccolo córso di nome Bonaparte. Già quando, nel 1797, le prime baionette napoleoniche compaiono sull’altopiano carsico, gli affari di Antonio cominciano ad andare di male in peggio. Classe 1774, all’età di undici anni Domenico Rossetti va a studiare al collegio Cicognini di Prato, insieme con tre dei suoi otto nipoti, tutti figli del fratello maggiore Giovanni, allora console di Modena a Trieste, sposato con la baronessa Marianna Ricci del Riccio di Livorno.

Domenico è un ragazzo sveglio, curioso, eclettico. Sogna di diventare poeta e letterato, ma la sua natura pratica, e l’idea che dalla vita si debba spremere ogni succo a buon profitto sia dei singoli sia dei molti, lo spinge a seguire corsi di filosofia e giurisprudenza tra Vienna e Graz.

Così, quando torna a Trieste, il giovane Domenico si rimbocca le maniche e cerca di riparare ai disastri finanziari della famiglia. La prima ondata francese è passata, Trieste si sta riprendendo dalla batosta e Domenico si getta nella mischia. Apre uno studio legale e si specializza in diritto marittimo (in seguito sarà anche legale della famiglia Murat-Bonaparte, nonostante la sua antipatia per i cugini d’oltralpe) ed entra nel Consiglio dei Patrizi, mentre con bulimica fame di sapere continua a coltivare arti e scienze. Domenico passa indenne anche la seconda occupazione francese, ma riesce a inimicarsi il governo austriaco quando squaderna codici e norme per dimostrare che la ripartizione delle pesanti gabelle francesi spetta tutta al Municipio triestino, per cui governo e ragioneria imperiale devono restare a bocca asciutta. È il primo di una serie di scontri con il Governo centrale che costeranno a Domenico Rossetti una vigilanza continua e un affezionato seguito di spie, che Domenico chiama «i miei ronzoni».

Quando le truppe di Napoleone calano per la terza volta in città, Domenico finisce nell’occhio del ciclone. Viene nominato dall’intendente francese Carlo Amedeo Joubert Preside magistratuale, una specie di esattore generale con l’incarico di incassare contribuzioni e requisizioni. Rossetti fa quello che può per evitare il peggio alla sua città, e alla fine la rottura con le autorità francesi è inevitabile: viene destituito e deportato a Palmanova. Ma quando gli austriaci riprendono il controllo di Trieste scopre di essere considerato un doppiogiochista, e la polizia lo mette di nuovo sotto stretto controllo. Del resto, a ben guardare, ce n’è: studioso di cose triestine, Domenico è un raccoglitore e commentatore appassionato delle italianissime opere di Francesco Petrarca e di Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Trieste poi divenuto Papa con il nome di Pio II. La raccolta di queste opere, lasciate in eredità al Comune di Trieste, formano oggi una apposita sezione dei musei cittadini e rappresentano uno dei tre musei dedicati a Petrarca esistenti al mondo. Domenico sa naturalmente parlare e scrivere in tedesco, ma ama la lingua di Dante e considera la cultura italiana una ricchezza aggiunta per Trieste. Per questo nel 1810 fonda la Società di Minerva, durante la terza occupazione francese, e poi la rivista ”Archeografo Triestino” che viene pubblicata dal 1829. Due istituzioni culturali che sono arrivate in buona salute fino ai nostri giorni malgrado il succedersi di guerre e regimi.

«Ma le sue capacità le espresse soprattutto come giurista», ripete Antonio Rossetti. Nel 1826 Domenico elabora un ”Progetto di legge libraria comune per tutt’Italia” che rappresenta uno dei primi tentativi di legge sul diritto d’autore che, come scrive, ogni governo italiano avrebbe potuto liberamente applicare «secondo i principi dei propri ordinamenti». Il progetto non verrà mai preso in considerazione perché avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Domenico, applicarsi a tutta l’Italia, principio questo allora inaccettabile, visto che l’Italia unita non c’è ancora. Nel 1832 Domenico viene invece incaricato dal governo di Vienna di elaborare il Progetto di un Codice Marittimo Austriaco. Dei cinque libri previsti, verrà stampato a Vienna nel 1840 il primo volume sul diritto pubblico marittimo, ma il codice non sarà mai completato né approvato per questioni politiche. Altro incarico in campo giuridico è il Tribunale delle Prede, un organo particolare istituito a Trieste per esaminare e valutare la posizione delle navi sequestrate con carichi di merci destinate a Paesi alleati della Francia; in questi casi la nave e le merci venivano vendute all’asta e il ricavato finiva nelle casse dello Stato.

Ma l’attività, o meglio la curiosità, di Domenico Rossetti spazia anche in altri campi dello scibile. Ad esempio l’idrografia: l’ultimo suo intervento in pubblico sarà al Congresso degli scienziati italiani a Padova nel settembre 1842, dove terrà una relazione sulle acque sotterranee del Carso. Si interessa anche di archeologia, e quando l’archeologo e storico dell’arte Johann Johachin Winkelmann viene assassinato a Trieste l’8 giugno 1768 da Francesco Arcangeli (poi giustiziato sulla ruota), Domenico non solo studierà le carte processuali, ma farà erigere un grande cenotafio mettendoci molto di tasca sua.

«Domenico amava la cultura italiana – dice ancora Antonio Rossetti – ma era un fedele suddito dell’Impero. Ciò che gli importava più di tutto era fare qualcosa di utile; come letterato ha lasciato poco di memorabile, non si sposò mai e le successive generazioni dei Rossetti sono state senza storia».

Ma la memoria dell’illustre avo continua a vivere nei suoi discendenti: Antonio con i suoi figli Domenico (41 anni), Amedeo (39 anni, vive a Bolzano), Mariapaola (23 anni, studentessa a Milano), e il fratello Nicolò con i suoi (Valentina di 22 anni ed Elisa di 19). «Non credo sia un caso – commenta Antonio – se mia figlia Mariapaola sia tanto appassionata di libri e studi bibliografici. Anche da piccola, era curiosa di tutto…».

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