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I Parisi: 200 anni di commerci nel mondo (Il Piccolo 29 dic)

di PIETRO SPIRITO

Negli uffici della sede di Viale Miramare 5 il tempo sembra prendersi una pausa di riflessione. La disposizione open space, con le grandi vetrate a dividere gli spazi, ideata all’alba del Novecento, è rimasta la stessa, e tra un’immagine scattata negli anni Trenta e un’istantanea di oggi cambiano solo i computer sulle scrivanie al posto delle macchine per scrivere e poco altro. L’arredo antico di quello che viene chiamato l’ufficio del Vecchio Principale, poi, in un’ala del primo piano, permette di dare un’occhiata nel passato per immaginare come dovevano andare le cose un paio di secoli fa, quando i Parisi tessevano una rete di transazioni commerciali che da Trieste si espandeva a raggiera nel mondo. Cosa che i discendenti maschi di Francesco Parisi fanno ancora oggi, in quello stesso ufficio, sedendo a quegli stessi tavoli come duecento anni fa i loro antenati. Forse nemmeno le dinastie reali possono vantare una consequenzialità così lineare nel tempo come la famiglia Parisi. Certo dipende dallo statuto societario, in virtù del quale nella società a nome collettivo possono entrare solo gli eredi maschi.

Ma questo straordinario anacronismo non basta a spiegare la solidità di quel filo che lega otto generazioni, e un’unità familiare che si identifica con l’impresa di cui porta il nome. Non basta nemmeno a spiegare come un’impresa commerciale sia riuscita a superare in modo così compatto le guerre napoleoniche, la Restaurazione, due conflitti mondiali, le crisi economiche del secondo dopoguerra, la caduta, la nascita e la ricaduta di un certo numero di confini, i passaggi tecnologici che dalla sua fondazione hanno visto spuntare – dal calamaio al computer – il treno e le navi a vapore, il telegrafo e il telefono, l’automobile e l’aeroplano. Il mondo degli scambi commerciali è una delle realtà economiche più instabili, un composto di interazioni talmente in balìa dei capricci della natura e della storia, che viene da chiedersi quale sia il segreto che ha portato la Casa di spedizioni Franceso Parisi a rimanere così organicamente compatta dal 1807 ad oggi.

«Bè – risponde Francesco Stanislao Parisi, 58 anni, presidente e amministratore delegato della ditta – è che per noi la cultura aziendale va al di là delle scelte personali, è più forte della stessa volontà dei singoli, anche se mio padre non ha mai fatto nulla per spingermi a entrare nell’azienda di famiglia».

Nell’arco di due secoli, tra contrazioni ed espansioni la famiglia Parisi ha cavalcato la Storia mantenendo come centro focale Trieste, a Trieste legata dal susseguirsi delle vicende economiche, politiche e sociali della città. Il primo a metterci piede, agli albori dell’Ottocento, è un giovane che si chiama Francesco Parisi. Francesco ha 28 anni, e arriva da Rovereto, dove il padre ha avviato da tempo un’attività di filatura e tessitura della seta. È un opificio importante, onorato, nel 1765, da una visita dell’imperatore Giuseppe II. Dopo la morte del padre titolare dell’industria di Rovereto, i tre figli Girolamo, Giuseppe e Francesco si trovano nella condizione di dover sistemare ”gli affari tanto di famiglia che di negozio”. Viene deciso che Girolamo resterà a Rovereto, Giuseppe guiderà il negozio a Vienna mentre Francesco tenterà la fortuna a Trieste, che dalla caduta del dominio veneziano attira affari e commerci come una calamita.

Il giovane Francesco arriva a Trieste tra un’occupazione francese e l’altra, e il primo gennaio 1807 con 30mila fiorini di conto capitale fonda la Casa di commercio che porterà fino ad oggi il suo nome. In pochi anni avvia un cospicuo volume d’affari consolidando una fitta rete di trasporti via terra, via mare e via fiume. Ma dura poco: nel 1813 Francesco muore all’età di soli 36 anni, lasciando la sua impresa nella bufera della terza occupazione napoleonica, la più deleteria per l’economia triestina: con il porto paralizzato da blocchi navali e scorrerie piratesche, il giro d’affari che a Trieste nel 1803 superava i 70 milioni di fiorini ora ne conta poco più di 2. Potrebbe essere la fine dell’impresa Parisi, invece è il suo vero inizio.

A Francesco subentra il nipote Francesco Giuseppe, figlio di Girolamo. Ha solo vent’anni quando prende in mano i libri mastri dello zio defunto, ma ha le idee chiare. L’azienda è ben piantata: regolare nei libri, nei bilanci, negli inventari, ma i risultati finanziari sono modesti e la Restaurazione, con il ritorno dell’Austria, non mantiene le sue promesse di una rapida ripresa. L’economia langue, finché, la mattina nel 2 novembre 1818, Francesco Giuseppe Parisi assiste a un evento epocale assieme a tutti i triestini: nonostante la bora forte dallo Squero Panfili prende il largo ”Carolina”, la prima nave a vapore costruita in città. Francesco capisce che quello è il futuro, liquida la sezione commerciale della ditta e potenzia i traffici marittimi, rilanciando la casa di spedizioni assieme al fratello Luigi e, più tardi ai figli Pietro Stanislao e Giuseppe.

Francesco Giuseppe muore nel 1844, all’età di 52 anni, lasciando la ditta nella mani del figlio maggiore Pietro Stanislao (il fratello Luigi ne è uscito due anni prima). Pietro, nonostante la giovane età, ha avuto modo di compiere alcuni viaggi, in particolare a Vienna, ed è un uomo di idee chiare e carattere fermo: «Gli affari che devo assumere – scriverà – non mi sono estranei e niuna intralciata faccenda mi disturba, perché semplice fu sempre il nostro commercio e lontano da imbrogliate operazioni che lasciassero rancide pendenze».

Personalità forte ma di indole melanconica, sposa Caterina de Hochkofler, e il famoso quadro di Tominz che lo ritrae con la famiglia sullo sfondo di Trieste dice molto sul carattere e le ambizioni di Pietro Stanislao. Che ha un solo incubo: la ferrovia. Durante il soggiorno a Vienna è salito su una diga per ossevare dall’alto il punto da cui parte la Ferdinandea, la Nordbahn, e adesso è terrorizzato dall’idea «che le ferrate strade e di monopoli succedenti da quelle direzioni possino produrre assorbimento di lavoro». Non sarà così, ma Pietro Stanislao resta prudente, e la prudenza paga. Il suo braccio destro è il giovane fratello Giuseppe, che quando Pietro Stanislao muore – anche lui giovanissimo, a soli 36 anni – prende il timone dell’azienda. Che con lui farà un salto di qualità, consolidando una volta per tutte gli affari. Il ritratto di Giuseppe, datato 1899, che ci ha lasciato Antonio Lonza, raffigura un uomo dai tratti severi, con in volto i segni della fatica e di non pochi dolori. Giuseppe Parisi ha trentun anni quando diventa capo della ditta. Sposa Matilde de Hochkofler, sorella della cognata Caterina, che gli darà cinque figli. Due di questi lo faranno soffrire. Il primogenito, Rodolfo, viene ucciso il 13 luglio del 1868 dalle guardie territoriali durante una dimostrazione dei liberali contro il governo austriaco. Giuseppe ripone allora le sue speranze nel secondogenito, Giuseppe junior, chiamato in famiglia Giuseppino, che però non ne vuol sapere della disciplina di famiglia. A nulla servono i richiami del padre: alla fine Giuseppino lascia tutto e se va negli Stati Uniti, in California. Da lì continua a mantenere rapporti epistolari con la famiglia, ma rifiuta ogni aiuto, deciso a rifarsi una vita per conto proprio. Non ce la farà: morirà a San Diego nel 1890, lasciando una ferita profonda nel cuore del padre Giuseppe.

Il dolore per la perdita del figlio non prostra Giuseppe: sotto di lui l’azienda apre filiali a Praga, Genova, Milano, Amburgo, Brema, Atene, Smirne, Alessandria d’Egitto, Salonicco, Londra. Con lui Trieste ha il monopolio per l’esportazione degli agrumi siciliani e fa concorrenza a Brema per il primato del caffè in Europa. Nel centenario della ditta Giuseppe – che fra l’altro è membro onorario della Camera di commercio e l’amministratore più anziano della Riunione Adriatica di Sicurtà – fa costruire il palazzo di via Miramare – l’attuale sede – su progetto dell’architetto viennese Friedrich Schachner, e conia il motto ”Perseverando vincis”. Nel 1913 l’imperatore Francesco Giuseppe lo nomina barone, mentre i traffici di cotoni, granaglie, coloniali, juta, zuccheri e fosfati vanno a gonfie vele. La guerra arriva come un tornado, l’economia subisce un brusco arresto ma ”zio Pepi”, come lo chiamano in famiglia, non molla e sposta gli uffici a Vienna, senza mai interrompre i rapporti con la filiale italiana di Venezia retta da Piero, figlio del fratello Francesco (Franzele). Giuseppe non vedrà la fine del conflitto: muore nel 1917 a novantacinque anni, lasciando la ditta nelle mani del figlio Francesco (Fulle), del fratello Rodolfo (detto Dolfele) e del cognato di questi Carlo Soletti.

L’impero dei Parisi si consolida nel dopoguerra, e nonostante un altro rallentamento dei traffici con il secondo conflitto mondiale – e la distruzione di molte filiali sotto i bombardamenti – l’idea di rafforzare le posizioni in diversi Paesi organizzando i servizi alle frontiere italo-svizzera e austro-tedesca e, grazie a queste, trovare nuovi mercati, si dimostra vincente. Le successioni al comando della ditta portano i nomi di Giuseppe (Pino), Francesco (Muni), Pietro Stanislao (Piero), Giovanni Battista (Giannio) e il fratello Domenico (Mico) e i rispettivi figli Pietro Stanislao e Francesco Stanislao.

«E siamo ai nostri giorni – dice quest’ultimo -, io sono cresciuto a Milano, sono venuto a Trieste solo nel 1984, e quindi mi sento un re-immigrato; ma i miei figli parlano triestino, e in tutta questa lunga storia di famiglia un punto resta fermo: Trieste, che era e rimane il centro dei nostri commerci in tutto il mondo».

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